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Pillon e il bel calcio di Pescara

Leo Lombardi

Da Galeone a Zeman passando per Allegri e Di Francesco. Così l'idea di spettacolo si è insinuata dalle parti dello stadio Adriatico

Se cercate una culla del bel calcio, fate un giro in provincia. Andate fino a Pescara. Qui Giovanni Galeone, in tempi di catenacciari puri, aveva instillato l'idea che segnare un gol in più rispetto all'avversario sia sempre meglio di uno 0-0. Qui ha avuto giocatori che sono stati eccellenti allievi, come Massimiliano Allegri e Gian Piero Gasperini. Qui ha avuto collaboratori che poi hanno camminato bene da soli, come Marco Giampaolo. Qui è ancora venerato, come si usa fare nei luoghi in cui amano il gesto tecnico più del fallo brutale. Un'idea di spettacolo che si è insinuata dalle parti dello stadio Adriatico, dove hanno vinto e divertito Zdenek Zeman ed Eusebio Di Francesco. E dove ha divertito, ma senza vincere, anche Maurizio Sarri. Un elenco di nomi che fa impressione, se si va a vedere le squadre che queste persone oggi allenano, boemo escluso. Un elenco che fa capire come un passaggio sulla panchina del Pescara sia spesso un marchio di origine controllata.

 

 

Bepi Pillon in Abruzzo ci è arrivato tardi, a 62 anni. Lo avevano chiamato ad aprile per risollevare una squadra che stava scivolando verso la retrocessione in serie C. L'ha salvata, ha meritato una riconferma e oggi si trova in vetta alla classifica. Una piacevole abitudine per Pillon, che si fa conoscere nel 1994 a inizio carriera a Treviso, a due passi da Preganziol dove è nato. Prende una squadra che gioca nel Campionato Nazionale Dilettanti, con avversarie che si chiamano Donada, Arco, Luparense, Caerano, e la fa arrivare prima con un punto di vantaggio sulla Triestina. L'anno dopo di nuovo primo, in C2. E l'anno dopo ancora primo, in C1, per la terza promozione consecutiva.

 

Treviso che ha la ventura di portare addirittura in serie A, unica esperienza per il club veneto oggi scivolato in Eccellenza. Accade in un rocambolesco 2005, quando viene chiamato con la squadra all'ultimo posto dopo nove giornate. Alla fine del girone di andata è già in zona playoff, al ritorno si gioca la promozione agli spareggi, trascinato dai gol dei brasiliani Barreto e Reginaldo, quest'ultimo diventato poi famoso per essersi trasformato per pochi mesi – parole sue – “nello stallone di Elisabetta Canalis”. Oggi gioca ancora, nel Monza di Silvio Berlusconi. I veneti sono eliminati dal Perugia, ma la giustizia sportiva fa fuori per illecito il Genoa, arrivato primo, mentre i debiti affossano chi segue in classifica, ovvero il Torino e lo stesso Perugia, cancellati dal calcio. E il Treviso si ritrova in serie A per caso, una toccata e fuga all'ultimo posto, che diventa penultimo per la retrocessione della Juventus a causa di Calciopoli.

 


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Calciopoli, per l'appunto. In quel 2005-06 Pillon è al Chievo. Chiude settimo, e già vale la partecipazione in Coppa Uefa. Settimo posto che diventa quarto per la caduta della Juventus e le penalizzazioni di Fiorentina e Lazio. La squadra del quartiere di Verona si trova catapultata in Champions League, al terzo turno di qualificazione. Dura poco, con eliminazione immediata per mano del Levski Sofia. Un'avventura europea proseguita ancora per due partite in Coppa Uefa e pagata in Italia: Pillon raccoglie un punto in sei giornate ed è esonerato, la squadra retrocede a fine stagione.

 

Dopo quell'avventura si torna alle avventure tra serie B e Lega Pro, con promozioni, salvezze ed esoneri. Pillon gode di improvvisa fama planetaria quando di lui si occupa il New York Times. Allena l'Ascoli che, in una partita di inizio dicembre 2009, va in vantaggio con Antenucci mentre uno della Reggina è a terra: proteste, risse, match interrotto per sei minuti. Alla ripresa il tecnico ordina ai suoi di lasciare pareggiare i calabresi, come fa subito l'indisturbato Pagano. Il problema è che alla fine la Reggina vince 3-1 e Pillon viene coperto dagli insulti dei tifosi. Di lui si ricordano le autorità, che lo premiano per il gesto, e la Fifa, che lo nomina per il gesto di fair play, solleticando l'interesse del quotidiano statunitense. Pillon commenta con sincerità: “Non so se lo rifarei, perché l'Italia non è pronta per certi gesti: non conosciamo la lealtà sportiva e i valori morali”.

 

 

Parole che fanno capire come il tecnico non appartenga alla categoria dei paraculi, molto in voga nel calcio italiano. E questo un po' la penalizza: mai una fiducia fino in fondo, chiamato in causa solo per risollevare situazioni rese insostenibili da altri. Come il Pescara di cui sopra, che la passata stagione prova a lanciare il tecnico della Primavera, Massimiliano Epifani, per trovarsi ben presto in acque pericolose. Una scelta del presidente Daniele Sebastiani, come sua era stata la decisione di richiamare Zeman per una seconda, e fallimentare, esperienza. Al momento dell'esonero si impone il direttore sportivo Giorgio Repetto, che avrebbe voluto Pillon qualche anno prima, e i fatti gli danno ragione.

 

Oggi il Pescara propone il 4-3-3 già visto con Galeone e Zeman, ma temperato dalla saggezza pilloniana, per un 4-4-2 in fase difensiva che regala equilibrio. La squadra si affida a grandi vecchi come Hugo Campagnaro (38 anni) e Cristiano Del Grosso (35) in difesa, dove danno consigli al talento emergente Andrew Gravillon. E da tenere d'occhio è anche un altro ventenne, Ferdinando Del Sole, fantasista qui cresciuto e appena tornato da un'esperienza poco felice con la Primavera della Juventus.

 

 

Ha giocato poco, ma contro il Lecce è entrato in campo e ha regalato la vittoria con una doppietta da applausi nel recupero. Quella di Pescara per Pillon è la panchina numero 23 in carriera, quella che gli ha nuovamente regalato il gusto del calcio in una città che ha gusto per il calcio: “A 62 anni non mi considero vecchio, si portano idee nuove per restare competitivi. In mezzo ai giovani mi sento giovane e credo di aver ancora molto da dire”.

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