Trent'anni di calcetto
Nostalgia per come siamo cambiati, in peggio: gioco stretto e senza visione. Come la politica
Roma. In questa estate italiana orfano dei Mondiali di calcio non si può fare altro che pensare di continuo al calcio: quando viene a mancare qualcuno è inevitabilmente ricordarlo con pungente nostalgia. Così tra un pensiero e l’altro, si elabora il lutto sapendo che quel mondo perduto è impossibile che ritorni. Al di là del Mondiale orbo dell’Italia c’è da dire che il calcio è ormai cambiato e forse in crisi di identità, una crisi che risale a più di trenta anni fa. I primi segnali del crollo avvengono dopo i fasti del Mondiale vinto in Spagna nel 1982 quando in Italia comincia a diffondersi il futsal, più noto con il nome di calcio a cinque o, meglio ancora, di calcetto.
Tutti sanno di cosa sto parlando: una versione “mini” del calcio, un campo e una porta molto più piccoli, così come il pallone e la durata della partita. Chi giocava a calcio e ora gioca a calcetto sa che le differenze non sono solo nelle dimensioni e nelle quantità, ma esistono diversità “qualitative”, due essenze inconciliabili. E’ il caso di sottolineare la coincidenza temporale: la fine degli anni 80 come momento di “rottura” e di conversione dal calcio al calcetto. In quegli anni abbiamo assistito alla trasformazione dei grandi campi di calcio (erba o terra per lo più) in tanticampetti in sintetico, un po’ come è avvenuto negli anni successivi per i grandi cinema che hanno ceduto alle multisala. Coincidenza non è casuale, con forte connotato simbolico.
Nel 1989 crolla il Muro di Berlino e il mondo cambia, crollano anche le ideologie e in Italia la spinta sociale si riversa nel privato, il “pubblico” perde terreno, le aggregazioni e il senso dell’appartenenza tramontano e trionfa il senso dell’identità e la visione più pragmatica di un individualismo che è sempre esistito ma che ora diventa sempre più spudorato. Questa trasformazione socio-politica è ben rappresentata dall’evoluzione del calcio in calcetto. Dal punto di vista pragmatico sono chiare le ragioni del successo del calcetto: organizzare una partitella di un’ora in dieci è molto più semplice di una di novanta minuti in ventidue. L’analogia con la politica è fin troppo evidente. Sono anni che si avverte il vuoto, l’assenza della politica dalla scena pubblica, spesso con una pungente nostalgia, perché l’attuale spettacolo della politica ricorda tanto una caricatura, un surrogato per nulla soddisfacente. Sì, perché i due fenomeni possono assomigliarsi ma l’essenza del calcetto è opposta a quella del calcio.
Nel calcetto la visione di gioco non serve. I campioni del calcio sono i registi, i fantasisti, quelli che indossano la maglia numero 10. Non c’è il 10 nel calcio a cinque. E qui una parentesi sul fenomeno, emerso proprio in quegli anni e altamente simbolico, della scomparsa dei numeri tradizionali, legati ai ruoli, a favore delle maglie con i numeri scelti senza alcun criterio e soprattutto con stampato sopra il nome del giocatore. Chi giocava con il numero due era il terzino destro, l’anonimo terzino destro. Il sei era il libero e il sette l’ala destra, a prescindere se si chiamava ìCausio o Bruno Conti; non lo sapevi, contava la squadra. Fino all’avvento negli anni 80 di Craxi, che cambiò le regole del gioco elettorale, per tutta la Prima Repubblica i manifesti erano senza volti e senza nomi: il simbolo del partito era sufficiente, la squadra contava non il goleador. Per dirla con Papa Francesco: “Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma”. Nel calcetto i ruoli saltano, tutti sanno fare tutto, non ha più senso una visione “organica” della società né un’attenta valorizzazione delle diversità.
In questo “tutto indistinto” non c’è spazio per la fantasia creatrice di un regista che con la sua visione di gioco fa la differenza, per il semplice motivo che non c’è proprio spazio fisico, il campo è piccolo. Le grandi narrazioni delle ideologie evaporano a favore del “privato”, dei piccoli spazi asfittici in cui si deve procedere con brevi e rapidissimi passaggi. I tempi lenti dell’elaborazione politica che connotavano Aldo Moro che parla per ore e ore ai congressi democristiani, lasciano il campo agli slogan più efficaci proprio perché più brevi: Craxi, Berlusconi, fino a Renzi, tutti ottimi giocatori di calcetto. Nessuna visione di gioco, nessuna lungimiranza, ma grande sforzo nel breve periodo e negli spazi stretti. Non esiste, nel calcetto, il lancio lungo, così decisivo nel calcio, di conseguenza la palla non si alza mai da terra, il gioco è tutto rasoterra. Palla bassa e correre correre, continuamente avanti e indietro, quasi fosse una versione del basket con i piedi. La palla deve essere tenuta bassa, così come nella competizione politica sono andate scomparendo le grandi “visioni” del paese, nessun taglio storico, tutto è un lavoro di interdizione continua al centro del campo. Conta soprattutto la prestanza fisica, l’abilità del controllo di palla e poi tirare: non di precisione, la porta è troppo piccola, ma di potenza. Il tiro di punta è il tiro del calcetto, quel tiro che quando cominciavi a giocare a calcio ti insegnavano che era sempre da evitare, era il tiro “volgare” di chi non sa giocare, tiro-scorciatoia privo di fantasia. Senza la finezza del tiro a effetto, del colpo a girare, l’azzardo del pallonetto. E qui si potrebbe aprire una parentesi sul progressivo involgarimento dello scontro politico nella nostra Italia dove è molto facile trovare campi di calcetto e quasi impossibile scovare chi ancora gioca a calcio. Non è un caso che negli ultimi anni sia esploso anche il fenomeno di “riflusso” del calciotto, senz’altro diverso dal calcetto ma solo un pallido epigono di ciò che era il calcio con la sua epica; ma forse questa del calciotto è solo nostalgia, sentimento necessario ma insufficiente per innalzare la politica all’altezza, umana e più che umana, che merita.