Foto LaPresse

Il dramma dello zapping tra partite in contemporanea: perdersi tutti i gol

Marco Archetti

Le premesse erano da cravatta colombiana: tanto Egitto-Arabia Saudita quanto Uruguay-Russia erano partite inutili ai fini del risultato

Ottant’anni fa, in questo esatto momento, lo scrittore russo Isaac Babel’ se la spassava un sacco. Stava ristrutturando la sua dacia di Peredelkino, ma in realtà nemmeno troppo, se agli amici scriveva: “E’ una bella villa a due piani, circondata da ettari di bosco e così isolata che passo il mio tempo nudo, facendo bagni di sole”. Io no. Io frequento le tenebre di certi bar più lugubri del risultato dei ballottaggi e faccio grandi bagni di Mondiali di calcio, bagni che, per lo meno a giudicare dal giuoco visto finora, andrebbero declassati a docce. E mica docce qualsiasi, ma docce atroci da stamberga, da caserma, docce con le guarnizioni logore che sbrodolano strabici getti d’acqua a traiettoria balenga: avete presente quella pioggerella spenta da prostatite idraulica, a gocce isolate, per intercettare le quali ti contorci come un derviscio, poi tanto resti comunque insaponato? Quelle.

 

Ma passiamo al fóbal, come diceva Giuseppe Zanardelli a Giovanni Giolitti in pausa pranzo.

 

In merito alle partite, le premesse erano da cravatta colombiana: tanto Egitto-Arabia Saudita quanto Uruguay-Russia erano partite inutili ai fini del risultato, essendo le prime due squadre già fuori e le seconde due comunque dentro. Inoltre – aaay Macarena! – si giocavano in contemporanea, obbligando il sottoscritto a un continuo saltello tra Italia 1 e Canale 20; e piroetta di qua e piroetta di là, e intercetta una goccia di gioco e intercettane un’altra… alegría es cosa buena ma anche un gran bordello. A intensificare ulteriormente la gioia di perdere 90 minuti di esistenza davanti a uno spettacolo siffatto, due preziosi elementi: tra i pali egiziani ci sarebbe stata praticamente una mummia, un 45enne, il signor El Hadary – presupposto non briosissimo – e tra quelli uruguaiani l’arcinoto Muslera, record di presenze ai Mondiali. Come fare per non soccombere a tanta arzilla senilità? Il palinsesto era dalla mia! Quel bordello della simultaneità tv non era forse la salvezza? Un ritmo ce lo si poteva inventare: sarebbe bastato imprimerlo al telecomando e abbandonarsi, saltabeccare e non chiedersi niente. Ma alla fine trasformarmi in un canguro del vacuum calcistico ha acuito la sensazione che i due match appartenessero al medesimo blocco inabile e alla stessa melma sterile tanto quanto il mio destino, infatti quando mi trovavo a Volgograd segnavano a Samara, se una pagliuzza volava a Samara io russavo a Volgograd, balza di qui e balza di là, alla fine non ho visto neanche uno dei sei brutti gol totalizzati. Pardo, consapevole quanto me dell’infecondità, iniettava storytelling a tutta manetta e nei primi minuti ammoniva: “C’è una vita da giocare!” con l’ammirevole entusiasmo di chi crede nella facoltà creatrice delle parole. Io cambiavo canale e di là erano inquadrati gli spalti, il telecronista diceva “squadre organizzate e gioco ordinato”, ma ormai sono talmente abituato alla manipolazione narrativa della realtà che una telecronaca di cittadinanza vale l’altra – detto ciò, a me il campo di Arabia-Egitto sembrava semmai uno sterminato podere in cui trotterellavano dei giardinieri in divisa: Salah era quello meno domenicale, ma appunto non si capisce perché sprechi la sua vita a esser contento di consegnar palloni a Trezeguet, assiduo vanificatore di ogni buona idea. Nel frattempo l’Uruguay era già a due gol: com’era possibile? Il tempo mutava le sue e le mie regole, lo spazio anche, Samara era Volgograd e perfino Aldo Serena ne azzeccava una. (Ma Pardo: “Vi ricordo che sul canale 20 c’è un’altra partita…”, insomma, non il massimo dell’atteggiamento). A Samara la Russia in svantaggio si raggomitolava, l’Uruguay in vantaggio esercitava un elettrizzante possesso palla difensivo e Serena commentava gli spalti. A Volgograd, intanto, l’ignavia atrofizzante era accesa solo da una prodezza del portiere-mummia, che tutti i compagni accorrevano ad abbracciare, ferendolo. Poi nel secondo tempo la Russia difendeva lo svantaggio e l’ira di Putin aleggiava sul capo di una squadra oppressa, il podere di Volgograd si faceva steppa, le distanze incolmabili e inconsolabile la malinconia, in un tripudio di cross infertili finché Hatan-piede-fatato ne ha intercettato uno e l’ha scagliato oltre l’orizzonte degli eventi. E mentre, come per Eugenio Onegin, la tipica rassegnazione dell’uomo russo a vivere in un quadro negativo vinceva anche me, Cavani faceva il terzo e l’Arabia il secondo. Io non so cosa ho visto, ma giuro che ho fatto docce migliori.

Di più su questi argomenti: