Addio Jake LaMotta, l'"attore" che convinse tutti di essere un gran pugile
Il Toro del Bronx divenne campione del mondo dei pesi medi battendo il francese Cerdan, ma è grazie alle sconfitte con Sugar Ray Robinson (e a De Niro) che divenne amato
Jake LaMotta sul ring era uno che durava a lungo. E anche nella vita gli è andata bene. Andarsene a 96 anni per un pugile è cosa estremamente rara. La cosa non deve stupire però, perché per tutta la vita Jake LaMotta è stato una rarità. Non era altissimo, non era potentissimo, ma era agile e testardo, sopratutto sapeva incassare. Le prendeva e stava in piedi, stava in piedi e le prendeva, poi inseriva uno di quei suoi pugni, che non si sapevano bene da dove arrivavano e l'avversario era rivoltato: perché solo lì Jake LaMotta iniziava a menare, quando i suoi avversari tiravano il fiato. Menava poco però, perché a furia di prendere pugni aveva stancato l'avversario, che ormai cotto andava al tappeto con poco.
Jake LaMotta in carriera ha vinto 83 match, 30 per Ko, 19 li ha persi, solo 4 dopo essere stato messo al tappeto, quattro li ha pareggiati. E' soprattutto diventato campione del mondo dei pesi medi battendo Marcel Cerdan, il pugile più forte della boxe francese, ma che combatté per nove riprese con un braccio slogato. Jake veniva dal Bronx, ma almeno in pubblico amava fare il signore: gli diede la rivincita. La sfida però non ci sarebbe mai stata, perché mentre ritornava in America per combattere, l'aereo del transalpino precipitò e non si salvò nessuno. L'italoamericano commosso disse: "Non ci sono parole per commentare questa tragedia, solo pugni in meno", non sorrise però, diceva sul serio.
La cintura la difese altre due volte. Contro Tiberio Mitri e Laurent Dauthuille. E se il secondo fu dominio, il primo fu un gran incontro, una prova magistrale della boxe elegante del triestino e di quella da incasso di LaMotta. Quindici riprese delle quali più della metà di pugni sferrati da Mitri e incassati dal Toro del Bronx. Dalla nona il riscatto, il Toro che caricava, e forte, e il triestino che arretrava, ma rimaneva in piedi, stremato. I punti diedero la vittoria a LaMotta e la conferma della sua verve.
Il pubblico esperto non amava Jake LaMotta, ne sottolineava la mancanza di stile, la sua classe infima, il suo modo da scaricatore di porto di tirare di boxe. Ci volle Sugar Ray Robinson e il suo pugilato eccelso a farlo apprezzare. Perché quando gli uomini incontrano una divinità, diventano più umani, diventano più simpatici. Soprattutto se non si va mai a terra, nemmeno durante "il massacro di San Valentino", quella tempesta di pugni e classe che Sugar Ray inflisse al Toro, che appeso alle corde guardava ancora negli occhi l'aguzzino: Ko tecnico alla 13esima ripresa. "Nemmeno questa volta m'hai mandato al tappeto", disse ridendo LaMotta. Non ce la fece mai.
Se Sugar Ray Robinson era leggenda, Tiberio Mitri bellezza, Jake LaMotta era semplicemente Jake LaMotta. E tanto bastava. Divenne un personaggio, uno dalla lingua buona e dall'intelligenza enorme, non di letture e studi, ma di furbizia e capacità di capire cosa piaceva alla gente. Divenne personaggio che ancora la boxe non ne era pronta, mattatore e anchorman sul quadrato, come forse solo Cassius Clay riuscì. Ma anche Clay era divino, LaMotta solo umano, terribilmente umano.
Brutto e sgraziato divenne epica e immagine. Prese le sembianze di Robert De Niro in Toro scatenato, diretto magistralmente da Martin Scorsese. Divenne per tutti "voglio che mi colpisci in faccia, voglio che mi colpisci in faccia" e poi "sono il più forte, il più forte, il più forte, il più forte, il più forte", proprio prima dei titoli di coda. Proprio lui che disse "avessi la faccia di Tiberio (Mitri), sì che avrei un futuro", divenne quello che Mitri, nonostante oltre venti film fatti, non divenne mai: una celebrità, un divo. "Tiberio è bello, io furbo", scherzava con l'italiano durante la loro amicizia durata una vita. E furbo lo è stato: ci ha convinto fosse un grande pugile, quando era solo un grande attore, scaltro come pochi, intelligente come nessuno.
la nota stonata #7