Max Biaggi con la compagna Bianca Atzei (foto LaPresse)

La rivoluzione di Biaggi. Lode della rinuncia alla velocità nella società no limits

Giovanni Battistuzzi

Il pilota romano dopo l'incidente di Latina ha deciso che non toccherà più una moto. Una scelta in controtendenza in un mondo nel quale il rischio nello sport ci è diventato prossimo, vicino, quasi normale

Li descrivono come folli, intrepidi, bislacchi, incapaci di provare spavento, quasi come fossero cyborg della velocità, perché per stare su una moto, a trecento all'ora in rettilineo, oppure distesi gomito e ginocchio a terra, qualcosa di robotico deve pur esserci: assenza di emozioni, lucidità estrema, che a volte altro non è che baldanza o assenza del senso del limite. "Motociclisti gente strana, di cuore più che di calcoli", almeno per Pasolini, quello delle moto, Renzo. Lui, quello del "tutto e subito", del "se c'è il buco per passare, si passa e poi a manetta per stare sicuri". Filosofia di una vita e di una carriera, che regalò applausi e fiati sospesi per anni prima di interrompersi sull'asfalto di Monza il 20 maggio del 1973. Filosofia che era di pochi, gente di pelo sullo stomaco e di fegato, tanto, almeno dieci volte più grande del normale. Le altre persone a casa, alla televisione o alla radio o a leggere resoconti, cronache, analisi, al massimo, per i più appassionati, il tentativo di provare esperienze edulcorate su moto da strada in collina o in pista per quelli più facoltosi.

 

Decenni fa. Perché se ancora i motociclisti sono descritti come folli, intrepidi, bislacchi è il resto che è cambiato. Lo sport si è estremizzato, l'hanno trasformato in "no limits": tuffi da altezze incredibili, addirittura quasi cosmici, come quello di Felix Baumgartner, salti senza paracadute, sci e biciclette che viaggiano su discese verticali a oltre duecento chilometri all'ora. Ed è un estremo aperto a tutti: paracadute, bungee jumping, parapendio, scalate su pareti di roccia, l'Himalaya avvicinato da sherpa e un po' di allenamento, giri su Formula Uno, circuiti che aprono i cancelli.

 

Decenni che sembrano un altro tempo, soprattutto dopo le parole di Max Biaggi a Oggi: "Credo che non salirò più in sella neanche per gioco". Lui il campione della moto, quello che con Valentino Rossi divise l'Italia delle due ruote a motore, quello che dal 1991 al 2015 a girare per il circus, fosse Motomondiale o Superbike poco aveva importanza, l'importante era tirare la manetta, a tutta. Lui che dopo l'addio ai circuiti ecco il supermotard, tanto per non perdere il vizio. Lui che è talento, ma soprattutto passione per la velocità, e quella non va in pensione. Poi l'incidente, costole rotte, versamenti polmonari, trauma cranico. Botte che sembravano potessero essere fatali, ma che non lo sono state. Botte che hanno colpito e a dovere. La scelta è stata chiara, totale. Basta.

 

Basta perché è ora, anche se gli anni sulla carta d'identità sono solo quarantasei. Basta perché è giusto così, perché anche i motociclisti sono uomini e non cyborg, perché magari li consideriamo folli, intrepidi, bislacchi, ma forse non sono così per davvero. Perché Biaggi uomo lo è, forse "non più uomo degli altri", come diceva il Villeneuve di Claudio Lolli, ma è fatto delle nostre stesse paure, quelle di cadere, farsi male, morire. E lo ha dimostrato con un basta, vera rivoluzione in un mondo di no limits.

"Siamo sconsiderati? Sciocchezze. La fifa che si prova a trecento all'ora te la senti attaccata al culo. Sta a te concentrarti su qualcos'altro per non cagarti addosso", disse il Villeneuve quello vero, Gilles. Poi proseguì: "Ci considerano speciali solo perché facciamo qualcosa che considerano impossibile. Se avvicini l'impossibile capiranno che non siamo poi così speciali".

 

Ora l'estremo, il non consono, ci è diventato prossimo, vicino, quasi normale, talmente normale da aver cambiato i connotati del rischio. "Un tempo per fare i trecento dovevi essere un pilota. Era una cosa pazzesca, quasi incredibile. E questo piaceva terribilmente alle donne. Ora, i trecento sembrano bazzeccole, quasi semplice. Per questo i piloti sono piloti e non più rock star", ha detto qualche tempo fa alla BBC sir Jackie Stewart, tre volte campione del mondo di Formula1, scherzando sulla "piatta" vita sentimentale dei campioni di oggi.

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