L'attaccante del Milan Suso (foto LaPresse)

Milan e Inter pareggiano nel derby di Suso, Barone rampante, pelandrone calviniano

Giovanni Battistuzzi

Il derby di Milano finisce in parità: 2-2. Candreva e Perisic rispondono alla doppietta dell'attaccante spagnolo del Milan.

Zompetta e guarda. E’ eclissi e astrazione. Quasi non ci si accorge della sua presenza. In campo non lo si vede, quasi sempre è osservatore non pagante, estremo destro, sulla linea a guardare diciannove ragazzi rincorre un pallone. E quando capisce che è il momento di entrare in scena non è quasi mai per volontà, per necessità, è perché lì arriva il pallone e quel pallone va difeso, offeso, calciato. E così da assenza diventa presenza, da comparsa diventa protagonista. Stoppa, scarta, dribbla. Sempre con la flemma di chi più che in uno stadio gioca al campetto, tra gli amici. Due le alternative: il compagno o la porta. La scelta è sempre bilico, ma non domenica sera, non nella partita di Milano, non nel derby. La scelta è la porta, il tiro, il gol. Jesús Joaquín Fernández Sáez de la Torre ha un nome chilometrico, come la distanza che non corre in campo, e un soprannome breve, Suso, come le sue dimensioni, 176 centimetri per 70 chili.

 

 

Nato a Cadice, Spagna, cresciuto a Liverpool, Inghilterra, divenuto in terra d’Albione calciatore giovanissimo, era finito a Milano quasi per caso, uno dei tanti parametri zero, ossia giocatore da acquistare gratuitamente, buono per completare rose e mettere a bilancio una buona plusvalenza.

 

Dicevano di lui che era bravo, ma che era più semplice convincere un asino a muoversi quando si piantava che farlo faticare in campo. Almeno per Rafa Benitez. Dicevano di lui che con la palla al piede era capace di qualsiasi cosa, ma che per arrivare ad avercela (la palla al piede) serviva anche sudare e lui del sudore non ne voleva sapere. Almeno per Steven Gerrard.

 

A Milano era arrivato il 17 gennaio 2015 e per un anno era rimasto nell’ombra della panchina. Pippo Inzaghi lo vedeva bene solo lì. Sinisa Mihajlovic da lui voleva corsa e sacrificio. Lo spagnolo però non era d’accordo e finì a Genova, sponda rossoblù, in prestito. Perché la dirigenza l’avrebbe pure ceduto, dato via per qualche milione, ma fu proprio il tecnico serbo a dire no, non si muove, può diventare un giocatore importante. Il suo piano era averlo di nuovo l’estate successiva, con più esperienza e più spirito di sacrifico. Sinisa però fu cacciato, Suso invece abbracciato da Vincenzo Montella, considerato imprescindibile. Titolare inamovibile.

 

L’Areoplanino l’ha schierato sempre tra gli undici titolari. E lui ha risposto pronto sempre, dodici partite e due gol, tante giocate di buona scuola e molti vuoti. Dodici partite e due gol diventanti tredici e quattro, nel posticipo meneghino, nel derby rossoneroazzurro. 2-2 il finale. Che poteva essere vittoria se l'esterno interista Perisic non ci avesse messo una zampata a pochi secondi dal fischio finale.

 

Due gol, quello dell’1-0 e quello del 2-1 che sono due dimostrazioni di quanto il suo potrei ma non (sempre) voglio possa essere determinante in una serie A che di campioni ne ha solo il ricordo. Ma sarà che Suso è personaggio schivo e di poche parole, sarà che non è leader, perché “bravo come lui a farsi gli affari propri, a stare bene nella propria indolenza, non c’è nessuno”, almeno per Kenny Dalglish, che a Liverpool prima di diventare allenatore è stato mito. Sarà che più che calciatore è personaggio letterario, calviniano, Barone rampante che piuttosto che scendere tra i comuni calciatori sparirebbe tra le fronde degli alberi. Poi però dalle cime scende, si ricorda di indossare gli scarpini, di trovarsi a suo agio con la palla tra i piedi. E segna. Due volte, come le sfere recapitate alle spalle di Handanovic, il lungagnone volante dell’Inter. Due volte, che però non sono bastate per portare a casa i tre punti cittadini. E intanto la Juventus si invola, distanzia tutti e si inizia a cucire sul petto un pezzetto di tricolore. Ma questo a Suso non sembra interessare, lui continuerà a vagare per il campo, come si confà ai grandi menefreghisti che in un modo o nell’altro, indipendentemente da loro valore assoluto, sanno ritagliarsi un posto nell’amore popolare. Di quel calcio che non sarà mai vincente, ma che ti fa saltare sul divano.

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