Claudio Ranieri (foto LaPresse)

“Ho sempre saputo che avremmo vinto la Premier League”. Claudio Ranieri raccontato da Claudio Ranieri

Redazione
La felicità di vincere “da vecchio”, gli inizi al Cagliari e le occasioni mancate per poco. Che cosa ha detto di sè in questi giorni il manager di cui tutto il mondo parla.

Ho fatto un buon lavoro. Sono felice. Sì, sono felice. Forse sono più felice così perché se avessi vinto il titolo all’inizio della mia carriera, ora me lo sarei dimenticato. Invece adesso sono vecchio e mi sento molto meglio. Mi hanno sempre detto che ho vinto poco. Io per indole non mi accontento mai e se mi guardo indietro mi dico: “Hai fatto tanto, ma non sei mai arrivato al momento giusto”. Ora, però, lo posso dire: ho sempre saputo che avremmo vinto la Premier League. Non l’ho detto prima perché sono fatto così: le cose mi è sempre piaciuto più farle che dirle. Ma a Natale ho capito. Avevamo raggiunto la salvezza, ci siamo riuniti nello spogliatoio e abbiamo parlato: “Proviamoci, non ci costa nulla”, ci siamo detti. E piano piano abbiamo capito che era il momento di osare. Il calcio non è chimica, non ha regole universali. Conta prendere il meglio dal gruppo che hai. Qui si sentono tutti partecipi, giocar male significa tradire gli altri. Sono persone libere, consapevoli, hanno un lavoro e delle responsabilità. Si divertono a mantenerle, a sopportarle. Ho un giocatore che viene ogni mattina da Manchester, uno arriva da Londra. Non sarebbe pensabile in Italia, ma nemmeno in Inghilterra. A Leicester si fa perché il gruppo se lo può permettere.
Adesso ricordo bene quello che hanno detto su di me dopo l’esperienza in Grecia. Mi hanno fatto passare per incompetente. Mi hanno detto che ero superato. Ma non sento di avere rivincite da prendermi. So che lavoro faccio. Sono pagato molto bene per essere considerato l’unico colpevole se le cose vanno male. So come va il gioco. Non mi sono mai arrabbiato, né l’ho presa sul personale. E ho sempre pensato in positivo. Ma io dico: possibile che uomini che capiscono il calcio e lo giudicano quotidianamente, non comprendano che un allenatore quando incontra tre giorni prima di una partita calciatori che non ha avuto il modo di valutare e conoscere attentamente, non riesca a incidere come vorrebbe? Ma sono sempre molto critico con me stesso e non conosco autoindulgenza, quindi qualcosa mi rimprovero: la fretta di scegliere. Allenare una Nazionale era una mia vecchia aspirazione. Forse avrei dovuto riflettere meglio, aspettare, valutare più a fondo vantaggi e svantaggi di un’avventura senza rete. Ho sbagliato. Allora quando sono arrivato qui a Leicester mi sono messo a guardare le registrazioni di tutte le partite della stagione precedente. Ho visto che la squadra aveva fatto un ottimo finale, correvano molto, davano l’idea di star bene. Ho parlato con i giocatori e ho capito che avevano paura del tatticismo italiano. Il calcio di un tecnico italiano vuol dire questo: tattica. Cercare di impossessarsi della partita seguendo gli schemi e le idee dell’allenatore. Parlare tanto di calcio. Non mi sembravano convinti, nemmeno io lo ero. Gli ho detto: io parlo poco di tattica, voi però correte. Ho molta ammirazione per chi costruisce moduli di gioco nuovi, ma ho sempre pensato che prima di tutto un buon tecnico debba impostare la squadra sulle caratteristiche dei suoi giocatori. Ho sempre cercato di dare un’organizzazione cercando di integrare la fantasia nell’equilibrio, il colpo di genio nell’insieme, il guizzo singolo nel lavoro in comune. Il tutto, tenendo presente un assunto fondamentale: il calcio è dei talenti, il calcio è anche e soprattutto imprevedibilità e i campioni devono essere liberi di fare quello che gli riesce meglio. Inventare, trovare il colpo utile a cambiare il corso di una gara, provare a immaginare una soluzione a cui non ha pensato nessun altro. Io da ragazzo avevo ambizioni da attaccante, ma non segnavo mai. Così Luciano Tessari, storico vice di Liedholm che già alla fine degli anni ’60 era il secondo di Helenio Herrera alla Roma, mi fece la proposta indecente: “Ma se ti chiedessi di giocare in difesa?”. Valutai l’opportunità e la sperimentai senza mai pentirmene. Da dietro vedi tutto, da dietro capisci meglio le cose, il gioco, il calcio.

 

E’ così che sono diventato allenatore. Se mi concentro su quel che abbiamo fatto adesso, non riesco a non tornare al principio, a Pozzuoli, quando nel 1987 con il Campania, in serie C, battemmo il Cagliari contro ogni previsione e il presidente Orrù e il direttore sportivo dei sardi di allora, Carmine Longo, mi assunsero per iniziare questo strano viaggio con la valigia sempre in mano. Non mi hanno dato subito un grande club da allenare. Cagliari fu l’inizio del sogno. Salimmo dalla terza serie alla serie A. Quegli anni mi diedero la possibilità di essere dove sono oggi. Non sarò mai abbastanza grato. Mi chiedono tutti se questo è giorno più bello della mia vita: non lo so. Tra qualche anno la memoria di questa Premier League avrà un altro peso. Il ricordo ha questo di magnifico: si fa coprire dalla nostalgia, diventa più dolce con gli anni che passano, si fa idealizzare. Ma per fare i consuntivi, almeno spero, rimane ancora tanto tempo.

 

Continuerò ad andare al supermercato come ho sempre fatto. Non ho mai cambiato le mie abitudini in trent’anni ed è un po’ tardi per farlo adesso. Sono capace di viaggiare sull’aereo privato del presidente, come sull’autobus e in metro. Che problema c’è? Resterò qui, finché si potrà. Il mio è un mestiere incerto. Mentre voli, non sai mai se il paracadute si aprirà o meno. Certezze non ce ne sono. Ho iniziato nel 1986 e alleno da trent’anni. A volte ho fatto male, altre non sono riuscito a far quadrare i conti. Accetto tutte le critiche, non la malafede. Ho carattere. La mattina ho bisogno di guardarmi in faccia senza dovermi sputare. E’ un’esigenza che ho sempre avuto. Una linea di confine. Non l’ho mai oltrepassata. Oltre quella linea c’è il rispetto per se stessi. Non mi sono mai piegato e quando un progetto non mi convinceva o cambiava di segno, me ne sono sempre andato. Ho solo chiesto, ovunque andassi, di poter sviluppare le mie idee. Quando non è stato possibile, ho salutato. Non sono cambiato. Sono lo stesso di sempre, lo stesso di Atene, della delusione con la Grecia. La stessa persona il primo figlio di una famiglia di lavoratori che oltre a dare una mano con le consegne della ditta, poteva giocare anche a pallone senza sentirsi in colpa.

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