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Putin, l'euro, il blocco navale. Dalla lotta al governo: giravolte meloniane

Lorenzo Borga

Governare è tutt’altra cosa che fare campagna elettorale permanente. È legittimo fallire e accorgersi che la realtà è più complessa di quanto si credeva. Ma ciò che manca alla narrazione governativa è l’umiltà necessaria quando si è costretti a cambiare posizione

Giorgia Meloni si era dimenticata di aver promesso di voler uscire dall’Euro. Lo ha negato davanti a un microfono, una telecamera e 200 senatori. Si sa, quando si entra a Palazzo Chigi la memoria può fare brutti scherzi a chi aveva promesso enormità agli elettori. Lo stesso è già accaduto ad alcuni predecessori della leader di Fratelli d’Italia, e accadrà ancora in futuro. E la colpa non è dei muri di Chigi, né delle dimenticanze dei presidenti del Consiglio, ma degli elettori che – quelli sì – hanno la memoria troppo corta.

 

Ma la promessa sulla moneta unica non è l’unica dimenticanza di Meloni. Rimanendo sulla politica estera, la madre di tutte le giravolte della premier è senza dubbio la posizione su Vladimir Putin e la Nato. Per quanto non abbia mai proposto di uscire dalla Nato, ha criticato aspramente le posizioni occidentali verso la Russia. Nel 2014 definì “sconcertante la leggerezza” con cui l’Unione europea avrebbe imposto le sanzioni contro Mosca dopo l’invasione della Crimea. Il tutto per vendere qualche forma di formaggio e chilo di frutta in più, ma anche per difendere il “settore della difesa” e quindi evidentemente nelle sue intenzioni rifornire la Russia di blindati e munizioni. Contro – secondo Meloni – “il nostro interesse nazionale” e solo per “seguire gli ordini del premio Nobel per la pace Barack Obama”. Due anni dopo ne era evidentemente ancora convinta, se parlò di “idiozia” per commentare la decisione di schierare truppe della Nato, tra cui un contingente italiano, in Lettonia, definendola una “provocazione” nei confronti della Russia. Va detto che la posizione di Fratelli d’Italia è cambiata il 24 febbraio 2022, il giorno dell’invasione dell’Ucraina definita già allora “inaccettabile” e “contro il diritto internazionale”. Ma quando Meloni è stata costretta a tornare sui fatti del 2014 e sull’annessione della Crimea si è nascosta dietro quell’occidente che all’epoca criticava: in estate la premier ha definito quei fatti un “assaggio delle intenzioni aggressive russe su tutta l’Ucraina” ma soprattutto ammesso che “in occidente non si era compreso appieno la portata di quanto stava accadendo, abbiamo sbagliato”. No, l’occidente ha senza dubbio avuto una reazione inadeguata dopo il 2014 nei confronti della Russia, anche per via dei numerosi centri di potere – piccoli e grandi – che remavano contro. E Giorgia Meloni sedeva tra quelli. 

 

E che dire delle promesse economiche fatte agli elettori? Come la flat tax per tutti, che nel 2018 spiccava in cima al programma elettorale di Fratelli d’Italia per le elezioni politiche, nel programma del 2022 era diventata flat tax incrementale, e nel 2023 era rimasta solo tax. In estate il governo ha deciso di eliminare dalla riforma fiscale i riferimenti all’aliquota unica per i redditi in più rispetto all’anno precedente, e riguardo alla flat tax nel testo sono rimasti solo i riferimenti a una generica “prospettiva della transizione verso l’aliquota impositiva unica”. Parole che in Gazzetta Ufficiale sono lettera morta. E come dimenticare le battaglie sulla legge Fornero. Su questo il salto è stato triplo: prima Giorgia Meloni l’ha votata in Parlamento quella riforma (e anzi qualche giorno prima invitava l’allora ministra a “non perdere una grande occasione per mancanza di coraggio” in nome “dell’equità tra generazioni”), poi se ne è pentita e l’ha definita una legge piena di errori, mentre oggi al governo la rafforza eliminando le vie di pensionamento alternative. Va detto che sulle pensioni Meloni è sempre stata più prudente del collega Salvini: nel 2017 ammise che la Fornero non si poteva abolire integralmente né si potevano mandare le persone in pensione a 60 anni. Anche nel programma elettorale per il 2018, in cui prometteva solennemente “l’azzeramento della legge Fornero” aggiungeva che sarebbe comunque stata necessaria una “riforma previdenziale economicamente sostenibile”. Fair enough.

 

Ancora più clamoroso è stato invece l’abbandono della posizione (ormai abbracciata da buona parte delle forze politiche, di destra, di centro e pure di sinistra) sulle tasse sulla casa. Fratelli d’Italia si è guadagnato voti nel corso degli anni promettendo che non avrebbero aumentato la pressione fiscale sugli immobili, in particolare la prima casa, considerato il sacro graal del patrimonio delle famiglie italiane (per quanto inefficiente dal punto di vista del rendimento individuale e pure per il finanziamento delle attività economiche). Non serve andare molto indietro nel tempo per ritrovare dichiarazioni di Giorgia Meloni del tenore di “da questo governo non partirà mai un aumento della tassazione sulla casa”, considerato “un bene sacro”. Eppure nella legge di Bilancio per l’anno prossimo secondo l’associazione dei costruttori compaiono quasi 2 miliardi di euro di maggiori tasse in tre anni. Quante idee si cambiano per rispettare i vincoli di bilancio (una frase che avrebbe probabilmente inorridito la Giorgia Meloni di cinque anni fa).

Ma probabilmente la promessa non mantenuta più dolorosa per Giorgia Meloni e il suo elettorato è sull’immigrazione. FdI ha raccolto voti su voti proponendo la linea dura, con il chiacchieratissimo “blocco navale”. Per le elezioni del 2018 proponeva il “blocco degli sbarchi con respingimenti assistiti e stipula di trattati e accordi con i paesi di origine dei migranti economici”. Ma la strategia di Meloni si è scontrata contro le stesse difficoltà incontrate dai suoi predecessori: i paesi di origine, se e quando esiste un governo legittimo e in grado di controllare il territorio, spesso non hanno incentivi a firmare questi accordi, e i respingimenti in mare sono ovviamente vietati dalle norme internazionali che l’Italia è obbligata – legalmente e moralmente – a rispettare. E per quanto riguarda il recente accordo con l’Albania, non farà altro che creare un gioco delle tre carte di arrivi e partenze di migranti che, comunque, prima o poi dovranno sbarcare in Italia.

 

Governare un paese come l’Italia è tutt’altra cosa che fare campagna elettorale permanente, l’occupazione principale di Giorgia Meloni per dieci anni dal 2012 all’autunno 2022. E’ del tutto legittimo cambiare idea, modificare la propria posizione, fallire e accorgersi che la realtà è più complessa di quanto si credeva. Ma ciò che manca alla narrazione governativa è l’umiltà necessaria quando si è costretti a cambiare posizione. E per fortuna di Giorgia Meloni la memoria degli elettori è peggiore della sua.