Matteo Renzi a Milano contro le fake news della politica (foto LaPresse)

La disinformatia online non sposta voti

Lorenzo Borga

Il Pd lamentava di avere perso il referendum del 2016 e le politiche del 2018 a causa delle bufale messe in giro dal M5s. Gli studi dicono invece che gli utenti cercano le notizie che confermano le convinzioni già acquisite

63 tweet sulle “fake news”. È quanto si trova sul profilo Twitter di Matteo Renzi facendo una ricerca sul social network. Negli ultimi mesi l’ex premier ne ha parlato sempre di più, fino a organizzare un evento a Milano contro le bufale in rete, in cui ha proposto che i comitati civici lanciati alla Leopolda si intestino battaglie legali contro chi diffonde notizie false e diffamazioni sui social network.

 

Daniel Funke, esperto di disinformazione online, ricorda che più gli utenti sono esposti a tweet contenenti le parole “fake news” meno riescono a identificare le notizie false. Questo termine non ha più un significato specifico, e viene spesso usato per screditare qualunque notizia o articolo sgradito

Il punto politicamente rilevante su cui Renzi sta spingendo in queste settimane sembra essere che le bufale online abbiano contribuito a far perdere il Partito Democratico negli anni scorsi. Per quanto lui stesso abbia affermato pubblicamente che la diffusione di informazioni false in rete non sia stata decisiva per il risultato del referendum costituzionale del 2016, su Twitter ha più volte alluso all’influenza – anche sui risultati elettorali – delle cosiddette “fake news”. Lo scorso 24 maggio scriveva: “Hanno vinto un referendum nel 2016 con bugie e fake news. Dovevano rivoluzionare tutto e tre anni dopo il Paese è in crisi e senza futuro. Puoi vincere un referendum con le bugie ma poi il conto lo paga la povera gente. Naturalmente sto parlando del Regno Unito”. L’ex premier non è certo il solo a credere in questo legame tra bufale e risultato elettorale: in fondo è intuitivo ritenere che più bufale siano prodotte a favore di un partito, più voti potrebbe prendere.

 

“Fake news” non si dice

Ma le bufale online posso davvero avere un ruolo, anche decisivo, sui risultati elettorali? Partiamo dal dire che sarebbe meglio non chiamarle “fake news”, come sostiene Daniel Funke – esperto di disinformazione online dell’International Fact-Checking Network - invitando soprattutto i giornalisti a non usare questo termine. Funke ricorda che più gli utenti sono esposti a tweet contenenti le parole “fake news” meno riescono a identificare le notizie false. Questo termine non ha più un significato specifico, e anzi viene spesso usato per screditare qualunque notizia o articolo sgradito. Bisognerebbe invece parlare di disinformazione (quando false informazioni vengono diffuse deliberatamente per danneggiare), “misinformation” (di cui non esiste traduzione italiana, quando false informazioni sono diffuse ma non coscientemente) e mala-informazione (quando le informazioni sono basate sulla realtà ma contestualizzate in modo falso con l’intento di danneggiare qualcuno o qualcosa). In questo articolo prenderemo in considerazione le vere e proprie bufale digitali, prodotte e diffuse in rete, tramite meme e post sensazionalistici. Non si tratta quindi delle narrazioni politiche false o fuorvianti prodotte dai partiti stessi, a cui tanto abbiamo dato spazio anche in questa rubrica e delle quali sarebbe ancora più complicato misurare l’effetto elettorale.

 

Di quanto stiamo parlando

Dopo aver chiarito questo passaggio, cerchiamo di quantificare di cosa stiamo parlando. L’Agcom a metà del 2018 ha misurato la percentuale di contenuti fake sul totale dell’informazione italiana. L’autorità per le garanzie nelle comunicazioni nel suo report quantificava i contenuti falsi, individuati sulla base di “black list” di siti e fonti non attendibili, all’1 per cento del totale nel periodo del referendum costituzionale del 2016 e al 6 per cento in prossimità delle elezioni politiche del marzo scorso. Mentre nel rapporto più recente, riferito a maggio, l’Agcom rileva “un volume di disinformazione online” in occasione delle elezioni europee “nettamente inferiore a quanto registrato in concomitanza del periodo elettorale delle politiche del 2018”. È interessante comprendere anche la ripartizione dell’offerta di disinformazione online: non è infatti la politica la principale vittima, bensì la cronaca (che comprende più di un terzo delle informazioni false online), la scienza e tecnologia (tra il 15 e il 20 per cento) e lo spettacolo, a pari merito con i temi politici, tra il 10 e il 20 per cento.

 

Un indizio che sembrerebbe a prima vista avvalorare l’ipotesi secondo cui la disinformazione online potrebbe aver sfavorito il Partito Democratico lo troviamo in una rilevazione dell’istituto Demos, diretto da Ilvo Diamanti. A fine 2017 veniva pubblicata una ricerca dal titolo “I media, internet e le fake news” in cui si trova un dato interessante: quanti hanno creduto in una bufala online e l’hanno condivisa (prima di accorgersi fosse falsa) tra gli elettori dei principali partiti. Risultato: 52 per cento degli elettori del Movimento 5 Stelle nel campione ha creduto almeno una volta a una bufala online, il 49 per cento di Forza Italia, il 37 della Lega e il 33 del Pd. Stessa classifica sulle condivisioni: primo il M5s per distacco (il 22 per cento ha condiviso una bufala), 11 per cento per Fi e Lega e 5 per cento per il Pd. Questi numeri possono sembrare la pistola fumante, la prova che in effetti i partiti ora al governo sembrano essere stati favoriti dalla diffusione di informazioni false su internet, ingannando i loro elettori. La realtà però potrebbe non essere così semplice.

 

Il tema è molto complesso e non si possono trarre conclusioni semplici da numeri, come questi, che sembrano così chiari. Non sappiamo se questi dati si riferiscano a bufale politiche, oppure di altro genere (che abbiamo visto essere la maggioranza). Non possiamo affermare con certezza che le differenti preferenze politiche siano il principale motivo per cui alcuni cadono in fallo con maggiore facilità, e altri meno. Potrebbe invece contare l’età, oppure il livello di istruzione.

 

Si studia di più perché si è più ricchi, o si è più ricchi perché si studia di più?

Può sembrare una domanda strana, ma la risposta non è poi così semplice. Ed è solo uno – e dei più famosi - degli esempi di causalità inversa che la statistica e l’econometria (cioè l’analisi quantitativa attraverso tecniche matematiche e statistiche di problemi economici e sociali) si sono posti negli ultimi decenni. In una domanda simile, non si capisce a prima vista cosa-causa-cosa, ed è per questo che rientra nei casi di possibile causalità inversa: studiare di più potrebbe aumentare il proprio reddito futuro, ma qualcun altro potrebbe argomentare che questo accade perché chi procede negli studi, in partenza, probabilmente parte da un reddito più elevato.

 

Sia le ricerche di Allcott e Gentzkow, sia quella di Guess, Nyhan e Reifler, dicono che l’esposizione a notizie false in rete è in gran parte determinata dalla partigianeria dell’elettorato e dunque chi visita con maggiore frequenza siti di “fake news” sembra essere già convinto della propria preferenza politica

La questione di chi abbocca alle informazioni false su internet è di simile portata. Se c’è chi sostiene che Lega e Movimento 5 Stelle hanno guadagnato voti diffondendo bufale online, in realtà potrebbe anche essere vero il contrario, secondo lo schema della causalità inversa: chi diffonde bufale in rete lo fa perché già appartenente all’elettorato di Movimento 5 Stelle e Lega, senza dunque effetto incrementale sui voti di questi partiti. In parole più semplici, si diffondono bufale (coscientemente o meno) a favore del partito per cui si è già deciso di votare, e non si cambia preferenza politica sulla base della disinformazione online. Anche questa è un’ipotesi, che però raccoglie maggiori consensi rispetto alla teoria delle bufale determinanti sui voti nelle urne elettorali. Negli Stati Uniti sono due le ricerche più famose che hanno indagato questi aspetti: la prima condotta da Allcott e Gentzkow, la seconda di Guess, Nyhan e Reifler. Entrambe arrivano a conclusioni simili: l’esposizione a notizie false in rete è in gran parte determinata dalla partigianeria dell’elettorato e dunque chi visita con maggiore frequenza siti di “fake news” sembra essere già convinto sulla propria preferenza politica (6 visite su 10 a questi siti proveniva nel 2016 dal 10 per cento dell’elettorato repubblicano più estremista). Nessuno dei due paper invece trova evidenza sufficiente per affermare che le bufale in rete possano avere avuto un effetto elettorale. Un concetto ribadito da uno degli autori in un post su Medium: “non abbiamo trovato nessuna associazione tra l’esposizione alla disinformazione pro-Trump e spostamenti di voti per il partito repubblicano o cambiamenti nell’affluenza”.

 

In questo senso sarebbero coerenti i risultati del sondaggio di Demos. Secondo inchieste giornalistiche e ricerche scientifiche infatti prima della nascita del governo Di Maio-Salvini la disinformazione più frequente si concentrava sulla narrazione anti-establishment, allora rappresentato dal Partito Democratico al governo da cinque anni. Per questo motivo gli elettorati delle opposizioni sarebbero stati quelli più propensi a credere a informazioni false: perché quelle bufale confermavano la loro fede politica e i loro ideali. Molto più difficile per un elettore del Pd credere in una notizia falsa se gran parte della disinformazione in rete era prodotta da pagine social e siti anti-governativi. È il confirmation bias, bellezza! Si tratta di un fenomeno cognitivo naturale del nostro carattere che ci rende più propensi a informarci e ritenere più credibili le fonti che probabilmente confermeranno le nostre convinzioni acquisite. Non a caso se i partiti oggi al governo avessero davvero “ingannato” con bufale i propri elettori, non si comprende perché un loro elettore – dopo aver scoperto di aver letto e condiviso una bufala – dovrebbe continuare a sostenerli.

   

Cosa ci dice la lingua

Allo stesso risultato arriva anche una recente ricerca, questa volta italiana, condotta da tre giovani ricercatori: Michele Cantarella, Nicolò Fraccaroli e Roberto Volpe. Gli autori hanno studiato, in concomitanza delle elezioni politiche del 2018, la diffusione di post su Facebook in Trentino-Alto Adige pubblicati dalle pagine dei partiti politici sospetti di contenere bufale anti-establishment. Sfruttando la differenza esogena della lingua (italiano in Trentino e tedesco in Alto Adige) tra le due province, molto simili per il resto, hanno verificato l’effetto della disinformazione sul voto. In questo modo, attraverso un metodo statistico chiamato variabile strumentale, hanno potuto escludere la presenza della complicata causalità inversa. Il risultato è che non sono emersi effetti dell’esposizione alle “fake news” sulla crescita dei partiti populisti nel voto. La conclusione è chiara: “il ruolo dei social media si limita a fornire agli utenti le informazioni a cui vogliono credere”.

 

Sia chiaro: la disinformazione in rete è pericolosa. Può accrescere la polarizzazione dell’elettorato, danneggiare in modo irreparabile la vita e la carriera delle persone prese di mira e ridurre la fiducia nei media e nelle istituzioni. Invece non sembra avere un effetto così determinante (per fortuna) sui risultati elettorali.

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