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Lo stato e i bambini del bosco. Tutelare sì, rieducare no

Giuliano Ferrara

La tutela pubblica dei minori non deve trasformarsi in un esperimento di socializzazione forzata. Il detersivo e la disciplina scolastica sono una buona cosa ma non una bandiera ideologica di stato, quando le circostanze non determinino un obbligo di intervento

Lo stato ha il diritto legale di prelevare forzatamente tre bambini che convivono con i loro genitori e affidarli a una comunità per un tempo da definirsi. Ci sono leggi di tutela dei minori che hanno una funzione di protezione sociale. Eliminarle del tutto nella loro dimensione coattiva sarebbe in teoria magnifico, un far da sé come testimonianza di fiducia assoluta nei legami materno, paterno e filiale, elementi di un nucleo comunitario riconosciuto anche secondo la norma costituzionale. Per certe situazioni-limite sarebbe un’imprudenza. Lo stato deve astenersi dall’ingerenza, specie in questo ambito, ma i figli appartengono ai genitori, che ne sono responsabili, in modo diverso da come appartiene loro un’automobile o una casa. Sono cose ovvie in un mondo postdickensiano. Il problema, rimarchevole, nasce quando filtra un confronto fra lo stile di vita considerato canonico dai servizi sociali e la libertà educativa della coppia che quei figli ha generato e alleva. 

 

Da quello che si capisce, nel caso dei fratelli del bosco, almeno in base a quanto comunicano i servizi che obbligano i bambini a questo soggiorno di rigore in collegio, diciamo così, il servizio pubblico di tutela minorile che esegue le direttive della magistratura competente, dopo la sospensione della potestà genitoriale, ha un’impostazione a rischio ideologico invece che un’idea pragmatica della correzione allo stile di vita scelto da chi esercitava fino a ieri la tutela naturale sui propri figli. Un conto è integrare un’educazione accertando certe compatibilità con una elementare norma sociale sul piano della salute, dell’igiene, della scolarità e delle relazioni con gli altri bambini e con adulti, un conto è la rieducazione, concetto che ha il sapore del totalitarismo culturale, magari inconsapevole, socialmente accettato e riverito, ma totalitarismo, eccedenza dai confini che fanno dello stato di diritto una cosa diversa e migliore da una gabbia pubblica intrascendibile dalle scelte libere, private dei cittadini.  

           

Sembrano deboli le osservazioni messe in campo per spiegare la differenza del punto di partenza e del punto di arrivo provvisorio del loro modo di vivere. Uno dei bambini era intimorito dal soffione della doccia. Il sapone non lo volevano usare. Hanno nostalgia del loro ambiente naturale e animale, il cavallino e i cani eccetera. Sono allegri, deliziosi di carattere, ma uno di loro a otto anni ha fatto un errore grammaticale nello scrivere il proprio nome. Godono dei conforti del caldo nei nuovi interni in cui abitano da oltre un mese. Socializzano, come si dice, con gli altri bambini, ma non partecipano fino in fondo ai loro giochi di relazione e di intrattenimento, e sono in ritardo sulla media dei compagni in procedure cognitive e scolari. Poi ci sono le “criticità” o “deprivazioni”. Il cambio degli indumenti aveva un ritmo settimanale, che le nuove autorità educative subentrate alla coppia anglo-australiana considerano lento. Sono inabituati allo schiocco dell’interruttore della luce e al rumore dello sciacquone, che disturbano il loro sonno. E via così. 

           

Ora è chiaro che vivere nell’isolamento di un gruppo di famiglia in un bosco è diverso dalla cuccia di stato approntata nella comunità in cui sono stati inseriti i bimbi. S’immagina che ci siano dei vantaggi e degli svantaggi rispetto a un ideale modello di vita buona. Anche i genitori, dicono i servizi, comprendono la situazione e sono inclini, forse non solo per riavere indietro i loro figli, a compromessi ragionevoli. Salvini e Roccella parlano a nome di tutti i genitori ma non tutti i genitori sono Salvini e Roccella. Ma la tutela pubblica dei minori non deve trasformarsi in un esperimento di socializzazione forzata. Bisogna dire che il sentimento comune delle persone a conoscenza di quella famiglia temporaneamente “espropriata” della sua libera intimità, un sentimento che qualcosa dovrebbe pur significare, esprime comprensione verso una vita familiare che i vicini di casa e di borgo non considerano come un’emergenza educativa e tantomeno morale. Non si dicono allarmati né tanto né poco, lasciano pensare che la “pulizia senza detersivi”, formula di una donna abruzzese con la testa sulle spalle, sia una risorsa quasi miracolosa, forse una scelta di comportamento che non mortifica l’igiene. “Troppi bagni” scriveva Guido Ceronetti sull’austera e igienica Stampa di Torino. E il bambino che vive nel bosco, in una comunità familiare consapevole e non come un lupo, si infanga presumibilmente in modo tale che non è possibile indurre a un cambio d’abito troppo frequente, come facevano gli aristocratici dei romanzi di Trollope e non facciamo noi che viviamo in città, tutti rigorosamente impegnati a cambiarsi prima di cena. Il detersivo e la disciplina scolastica possono essere e sono una buona cosa ma non una bandiera ideologica di stato che sospende altre regole e altri modi di vita, rieducando, quando le circostanze non determinino un’urgenza o un obbligo di intervento.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.