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non vietare ma educare

Il modello australiano è una risposta nazionale a problemi globali

Paolo Emilio Russo

"Vietare i social agli under 16, come ha fatto l'Australia, si rivelerà un progetto fallimentare. Internet non riconosce logiche nazionali e soprattutto il proibizionismo creerà un mercato parallelo, meno trasparente e meno controllabile", ci dice il parlamentare di FI Paolo Emilio Russo

Come ampiamente previsto – e financo scritto su queste pagine – vietare i social agli under 16 in un singolo Paese come ha fatto l’Australia si è rivelato un epic fail da boomer: un’iniziativa messa in campo da chi parla di teenager e tecnologia senza conoscere gli uni e l’altra, cercava più il consenso dei genitori che la sicurezza dei loro figli. Salutata un po’ frettolosamente come nuovo modello mondiale da esportazione e multe fino a 50 milioni di dollari per le piattaforme, si è schiantata contro la realtà come un fax contro un firewall. Il Parlamento di Canberra pensava davvero che un sedicenne australiano, cresciuto con uno smartphone in mano, non sappia cosa sia una VPN? Che non possa mentire sulla propria età? Che non migrerà su piattaforme meno controllabili, magari ospitate in giurisdizioni esotiche dove nessuna autorità occidentale potrà mai arrivare? Il divieto creerà – e forse lo sta già facendo – esattamente quello che ogni proibizionismo crea: un mercato parallelo, meno trasparente, meno controllabile, dove i ragazzi saranno ancora più esposti ai rischi che si volevano evitare. Porre dei limiti all’utilizzo dei social media tra i più giovani non è sbagliato e lo pensa anche chi – come il sottoscritto – sinceramente liberale, è normalmente allergico ai divieti. Il tema dell’abuso dei social media da parte di bambini e ragazzini esiste e merita più attenzione di quanta se ne sia prestata fino a oggi. Gare estreme che frequentemente diventano suicidi, adescamenti, minacce, ricatti e revenge porn sono un male da sradicare. Ma proprio perché il problema è serio, dobbiamo evitare soluzioni che appaiano come una crociata di un – solo – governo contro le piattaforme. La legge australiana parte dal presupposto che uno stato nazionale possa esercitare sovranità su Internet come la esercita sul proprio territorio fisico, ma questa è un’illusione ottocentesca: TikTok ha sede a Singapore, Meta in California, Telegram non si sa bene dove. Queste piattaforme operano in una dimensione transnazionale che rende qualsiasi regolamentazione unilaterale destinata al fallimento o, peggio, all’autoritarismo digitale. Vediamo già il passo successivo: per far rispettare il divieto, l’Australia dovrà implementare sistemi di verifica dell’identità sempre più invasivi.

 

 

Si parla di riconoscimento facciale, di database centralizzati, di schedatura digitale di massa. In nome della protezione dei minori, stiamo normalizzando uno stato di sorveglianza che farebbe impallidire Orwell. E tutto questo per un risultato che ogni adolescente medio aggirerà in dieci minuti con un tutorial su YouTube. La vera sfida non è vietare, ma educare, responsabilizzare, portare le piattaforme dalla “nostra” parte. Significa investire seriamente nell’educazione digitale nelle scuole, con programmi strutturati che insegnino pensiero critico, gestione della privacy, riconoscimento della manipolazione algoritmica. Significa dare strumenti veri ai genitori. Significa obbligare le piattaforme a trasparenza algoritmica, a meccanismi di controllo parentale efficaci, a design etici che non sfruttino le vulnerabilità psicologiche dei minori. Per farlo bisogna non sfidare – o, peggio, provocare – le piattaforme, ma costruire un percorso di collaborazione con le istituzioni, che comporta per loro anche un vantaggio reputazionale. Molte piattaforme – comprese quelle più discusse – già oggi hanno attivato meccanismi di bolle, impediscono ai minorenni di interfacciarsi con gli adulti. Non è poco. Sono meccanismi perfettibili, ma certamente un buon inizio: potessi scegliere, preferirei che i miei figli – se proprio devono – partissero proprio da li’. L’esperimento australiano fallirà perché si scontra con la natura stessa di Internet, che non riconosce confini nazionali. Per l’Italia e l’Europa, l’esempio australiano dovrebbe funzionare da monito, non da modello. Possiamo fare di meglio: proteggere i giovani senza scadere nel paternalismo tecnologico o nell’illusione di controllare l’incontrollabile.

 

Paolo Emilio Russo, parlamentare di Forza Italia

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