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L'editoriale dell'elefantino

Per cancellare la lista degli stupri bisogna passare dal clima vittimario alla vendetta sociale

Giuliano Ferrara

Chi sente come fatale la morale del potere che infrange per vizio e belligeranza il tabù della femminilità, e ne fa stupro, deve essere messo di fronte a un’idea e a un simulacro che parlano d’altro, che alludono alla fine dell’impunità, costi quel che costi

Contro la stupidità criminale delle liste stupri, affisse in alcune scuole come manifesto del prepotere maschile sulle ragazze e le donne, non ha senso esibire la tavola dei valori come un qualsiasi programma di educazione al civismo e alla decenza. Bisognerebbe proiettare in aula il grande film del 1991 di Ridley Scott, “Thelma e Louise”, la meravigliosa storia di due sublimi e combattivi caratteri femminili che cercano il potere e la libertà e raccontano il loro romanzo d’amore e follia, di empowerment e avventura, cominciando con Louise che libera Thelma dalle grinfie di uno stupratore tirandogli un colpo di rivoltella in un parcheggio, facendolo secco. Le liste stupri sono figlie della debolezza dei valori continuamente esibiti, ma senza alcuna forza d’immaginazione e senza il necessario furore simbolico. Anzi. I disgraziati ragazzi che scrivono le liste come si scrivono oscenità e parolacce nei cessi, per riscattare frustrazioni individuali con lo spirito anonimo della prepotenza collettiva, sono spinti all’azione, al ludibrio e al dispetto di un’immoralità e di una violenza appunto da cesso.

 

Agiscono in risposta a una campagna di vittimizzazione della preda che esalta senza nemmeno saperlo la potente ansia predatrice che sta al fondo del maschio. Non è il femminismo che genera la reazione testosteronica abbrutita, è semmai la femminilizzazione della vittima predestinata che fa circolare la lingua subliminale dello stupro e della violenza contro le donne come risposta.

 

Donne e ragazze sono immagazzinate, nelle convenzioni della comunicazione sociale, sugli schermi sui giornali e un po’ dovunque, come bersagli e animali braccati in una battuta di caccia senza speranza. La favola e la sua morale sono sempre le stesse, in ogni cronaca, in ogni confezionamento della notizia, in tutta quella nuvola di ideologia che circonda il fenomeno sociale della violenza contro le donne: lei è debole, impacciata, muta, in fuga, lei è ubriaca, spossessata del suo io, lei non sa e non può, non si muove e non denuncia paralizzata dall’orrore, mentre lui è la forza che non conosce diritto, è la psicopatia accettata come dato sicuro e identitario insito nel carattere maschile, lui è quello che sa e che può, quello che passa all’azione. Questo è tragicamente sbagliato, è un modo opaco e fallito di rendere conto del rapporto tra i sessi, reca con sé un effetto-vittima e una delega alla compassione astratta che non sono dissuasivi, che non portano a nulla se non all’accanimento opposto del presunto cacciatore di spoglie sessuali. Riconoscere, anche con le parole e l’innocenza di un narratore come Francesco Piccolo, “l’animale che è in me”, il residuo di pretesa al potere assoluto e distruttivo presente nell’identità maschile prevalente, ecco un altro punto di partenza accettabile di un racconto non elusivo e invece forte e anche impressionante di un mondo alla rovescia che si può e si deve rimettere sulle sue gambe. A patto che quell’animale sia messo di fronte alla sua responsabilità criminale, alla sua debolezza psicologica, alla sua pretesa infondata, da una reazione contraria che esprima forza e sicurezza, che funga da deterrente, da muro, da interdetto efficace e senza scrupoli.

 

Ho un ricordo netto, e ne parlai qui discutendo della questione della legittima difesa, dell’applauso liberatorio che nel cinema scrosciò, e senza appello, quando partì il colpo contro il violentatore di Thelma. Le donne, le ragazze, il mondo della tutela e della legge, coloro che costruiscono la lingua e l’immaginazione dei più giovani, le famiglie, i guru della psicoanalisi da carta stampata, un sacco di gente a partire dalle vittime che non devono più essere vittime può cambiare registro, far sentire che si passa dal pianto alla rabbia, dalla sottomissione strisciante alla reazione aperta e orgogliosa. Chi sente come fatale la morale del potere che infrange per vizio e belligeranza il tabù della femminilità, e ne fa stupro, deve essere messo di fronte a un’idea e a un simulacro che parlano d’altro, che alludono alla fine dell’impunità, costi quel che costi. Il matrimonio riparatore finì con Franca Viola e la sua aperta ribellione, sua e della sua famiglia, fra lupare che sparavano e campi bruciati per rappresaglia. La donna comincia a essere preda quando è vittima predestinata. Il maschio smette di essere predatore quando sente intorno a sé non il clima della compassione vittimaria ma quello della vendetta sociale.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.