Il 30 ottobre scorso, per il compleanno di Maradona, la statua scolpita da Domenico Sepe è stata portata in giro tra i luoghi emblematici di Napoli (Getty) 

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Processioni, altari e web. Così Napoli crea nuovi santi ed eroi (oltre Maradona)

Francesco Palmieri

La devozione di massa ha assunto forme inattese, che non fanno distinzioni tra il bene e il male. Dalle apparizioni di Totò alla beatificazione dei “teneri assassini” della malavita 

Santo Diego Maradona, a differenza dei santi bolognesi che cantava Lucio Dalla in “Piazza Grande”, da vivo i pranzi li pagava a pletore di amici scrocconi e ora li paga anche da morto, ma ai poveri di Buenos Aires e a quelli napoletani della mensa sociale di san Vincenzo de’ Paoli. L’ultima occasione di offrirli in suo nome è stata il 30 ottobre scorso, celebrazione del suo compleanno, quando la statua di Maradona scolpita da Domenico Sepe è stata portata in giro tra i luoghi emblematici di Napoli fino a Poggioreale, per la riapertura di un campetto di calcio e la donazione di duecento palloni ai bambini del quartiere. Non c’è solo il murale ai Quartieri Spagnoli né le altre effigi del pibe riprodotte sui palazzi della città a testimoniare la trasformazione di un ricordo speciale in devozione popolare, fruttuosa per l’indotto alimentato dal turismo però animata più dall’emozione collettiva che da calcoli di microeconomia.

 

Se il “tavolo sospeso” per i bisognosi, apparecchiato presso alcune pizzerie napoletane nel liturgico 30 ottobre, richiama l’uso del “caffè sospeso” divulgato da Luciano De Crescenzo, non è per folklore ruffiano ma perché la città dei nuovi primati economici meridionali, all’avanguardia per la robotica e l’Apple Academy, che si prepara alla Coppa America e seduce per allure culturale, non ha mai perso l’irrazionale fame di santificazione dei suoi eroi. Nel bene o nel male continua a sentire l’esigenza del miracolo periodico. A quello di un sangue che si scioglie fa da corolla la beatificazione coram populo di anime pie, di spiriti laici e addirittura di qualche malacarne. “Stammo tutte sott’ ‘o cielo” ma ogni tanto qualcuno ci deve salire, perciò l’antropologo Marino Niola ha individuato nel ricordo di Diego Armando Maradona un nuovo culto popolare, che non confida nell’approvazione ecclesiastica ma potrebbe persino produrre (se già non è accaduto) veri e propri miracoli.

 

“Tutto avviene in effetti come se questo spirito religioso rivendicasse implicitamente la libertà sovrana del popolo di credere come vuole, a ciò che vuole, quando vuole, ossia la manifestazione della sua insubordinazione religiosa”: lo ha affermato lo scrittore Philippe Vilain, uno degli innumerevoli intellettuali francesi (da Alexandre Dumas a Jean-Noël Schifano e Sylvain Bellenger) cui Partenope ha profuso materia non soltanto d’arte ma di vita. Vilain ha intuito che “Napoli non è una città religiosa nel senso stretto del termine, ma è una città che sviluppa un forte spirito religioso, un sentimento interiore, profondo, del sacro”, dove “devozioni di massa di carattere emotivo forgiano inconsciamente un fantasma collettivo”. Può assumere e assume, questo fantasma, le sembianze più inattese. Una tra le più note è quella di Totò, in odore di santificazione popolare sin da quando era vivo e che ha ispirato anche fenomeni di suggestione collettiva, come registrarono le cronache cittadine tra il 2018 e il 2019, con la segnalazione di diverse presunte apparizioni del suo volto o della sua persona in luoghi disparati. Oggi se ne celebra l’iconografia con una mostra nella Sala Belvedere di Palazzo Reale, inaugurata il 31 ottobre e che chiuderà il 25 gennaio prossimo, curata proprio da Niola secondo cui “Totò, come Maradona, non riesce a morire davvero”. Come non muoiono i santi, in un perdurante dialogo con i devoti che talvolta si concreta nei portenti. Credere o non credere è faccenda strettamente personale. Ci limitiamo a raccontare i fatti, dicevano i cronisti di una volta.

 

Quello avvenuto l’estate scorsa reca firma e timbro di monsignor Pasquale Silvestri, rettore di san Ferdinando di Palazzo (è, per chi conosce Napoli, la chiesa di fronte al Caffè Gambrinus in piazza Trieste e Trento). Il protagonista stavolta è un santo-santo, il monaco libanese Charbel Makhluf morto nel 1898 e canonizzato da Paolo VI nel 1977. E’ il 24 luglio e monsignor Silvestri, terminata l’affollatissima messa con la partecipazione di cinquecento fedeli, amministra il cosiddetto olio di san Charbel ungendo il capo degli ammalati che sono più di quanti immaginasse, per cui è costretto a capovolgere l’ampolla quasi vuota per intingere il dito nelle ultime gocce rimaste. Alla fine richiude la fiala, ma mentre sta per riporla osserva un fatto straordinario: “Mi sono reso conto che era di nuovo piena di olio”. Così riferisce il monsignore in una lettera del 27 luglio successivo resa pubblica e indirizzata a padre Elias, postulatore di san Charbel: “Con l’ampolla in mano, quindi, mi sono recato alla balaustra del presbiterio e ho confidato la cosa al mio collaboratore Leo il quale mi ha confermato che le persone che avevo unto sul capo erano quasi cinquecento e che necessariamente l’olio si doveva essere consumato e anche lui restava allibito nel vedere l’ampolla piena di olio. Ho mostrato l’ampolla e raccontato quanto era accaduto a tutti i presenti che hanno visto e possono confermare la veridicità di quanto Le racconto e hanno tutti ringraziato San Charbel con un caloroso applauso”. Il prodigio dell’olio che si rimaterializza s’aggiunge a quello dei sangui che si liquefano (oltre ai più noti, di san Gennaro e della compatrona santa Patrizia, gli archivi ecclesiastici serbano memoria di molte reliquie dal periodico “solve et coagula”).
Dentro e fuori dei circuiti battuti dai turisti, le anime sante per la Chiesa o santificate per vox populi non negano mai aspettative di grazia. Qualche volta operano certi miracoli sociali anche da vive. Così è riuscita a penetrare nel mainstream televisivo, che preferisce ancora attingere al consunto filone dei poliziotti olografici, la miniserie “Noi del Rione Sanità” diretta da Luca Miniero e dedicata alla storia vera del parroco Antonio Loffredo. Il sacerdote è stato già ispiratore di un personaggio del romanzo Nostalgia di Ermanno Rea, e dell’omonimo film di Mario Martone, per avere contribuito alla rinascita del quartiere inventando una economia durevole che ha dato occupazione e futuro a molti giovani. L’ultima puntata della fiction è andata in onda il 6 novembre e anche la sua produzione qualcosa di miracoloso ce l’ha, perché una società locale, la Mad Entertainment, è riuscita a fare “cinema dal basso” e a portarlo su Rai 1. Maestranze, tecnici, attori e autori vivono dove è stata girata l’opera, nel rione natale di Totò, e vagheggiano un’industria audiovisiva radicata nella comunità e nei territori che racconta. 

 

Don Loffredo saprà, si parva licet, che sant’Alfonso Maria de’ Liguori gli avrebbe fatto i complimenti, perché anche lui duecentocinquant’anni fa si mosse più o meno così. Se la Chiesa lo celebra come dottore per l’importante contributo teologico, nella dimensione popolare la sua presenza si rinnova ogni volta che s’intona per Natale “Tu scendi dalle stelle”, che sant’Alfonso scrisse dopo “Quanno nascette Ninno” con cui azzardò una rivoluzione linguistica: nessuno prima aveva osato un canto religioso in napoletano, ma lui si rese conto che era l’unica maniera per essere capito da chi non comprendeva l’italiano e non sapeva leggere e scrivere. “Fu una composizione talmente bella e fruibile da tutti da dimenticare addirittura chi ne fosse l’autore, anche perché fu tramandata nella tradizione orale e attecchì in molti luoghi del Regno delle Due Sicilie, dove le ‘Ninna nanna’ ricavate da quella che sant’Alfonso fa cantare alla Madonna hanno dato lo spunto a molte altre”, spiega il musicista ed etnomusicologo Ambrogio Sparagna, che è impegnato da decenni nel recupero del vasto repertorio popolare di sant’Alfonso e lo restituisce con periodici concerti in giro per l’Italia. Il teologo che scese dal piedistallo di futuro santo e se n’andò a incantare i “lazzari” del sottoproletariato, parlando di dogmi con le parole loro, sarebbe stato anch’egli protagonista di un prodigio del sangue, il suo stesso sangue. Conservato in una fiala, si scioglieva nella chiesetta della Madonna della Mercede in via San Sebastiano, la strada – guarda caso – dei negozi di strumenti musicali, che ora vanno scomparendo nel centro antico soffocato dai turisti.

 

Nessuno di loro, probabilmente, mercoledì 19 novembre saprà mai che a quattro passi da piazza Dante e dal Mann, il Museo archeologico nazionale, si rinnoverà la celebrazione annuale che riguarda un altro sant’uomo anche se santo ufficiale non è, ma così è reputato da una cerchia consistente di devoti. Converranno nella parrocchia di san Giuseppe dei Vecchi e Immacolata di Lourdes i fedeli di don Dolindo Ruotolo, il “padre Pio” napoletano morto nel 1970, che soffrì come il frate di Pietrelcina una vita di contrasti con i superiori gerarchici e di inesausto ardore mistico. Chi visita quella chiesa, in cui riposano le sue spoglie, potrà facilmente assistere al singolare rito dei devoti che bussano tre volte alla sua tomba secondo le indicazioni che lasciò lui stesso, e recitano una preghiera per invocarne la miracolosa intercessione. Ormai solo qualcuno tra i più vecchi residenti della zona si ricorderà di averlo visto, tra via Salvator Rosa e Scala San Potito, mentre camminava curvo sia a causa dell’artrosi sia della borsa che riempiva di sassi per fare penitenza.

 

Oggi in due modi si manifesta la presenza della Polonia a Napoli: con la proliferazione di targhe automobilistiche “PL”, per pagare una polizza assicurativa meno cara, e con l’arrivo frequente di pellegrini polacchi alla chiesa di don Dolindo, che loro conoscono bene perché nel 1965 profetizzò l’elezione di Karol Wojtyla, “nuovo Giovanni”, al soglio pontificio. Scrisse ben trentatré volumi di Commenti alla Bibbia: più che tanti, tantissimi considerando che li volle comporre rimanendo inginocchiato. Non sappiamo se manifestino prodigi né chi le custodisca, ma la nipote Grazia Ruotolo in una intervista di qualche anno fa informò che “ci sono delle bottigliette di sangue di don Dolindo, 12 bottigliette più o meno della grandezza di quelle dello sciroppo per la tosse”. Forse un giorno sarà canonizzato, ma per molti credenti la ratifica è superflua. Profumò di Paradiso già prima di morire, però se fosse stato ancora vivo si sarebbe procurato nuove noie col Vaticano: nel suo ultimo libro sulla Madonna, che si dice abbia scritto mentre il diavolo lo percuoteva, propugnò Maria come Corredentrice, titolo che il documento Mater Populi fidelis del Dicastero per la dottrina della fede ha appena dichiarato “inappropriato” e “sconveniente” suscitando polemiche fra i tradizionalisti.

     

   

Sono questioni teologiche che non fanno breccia nel “carattere emotivo” delle devozioni di massa osservate da Vilain, nella città dove il dialogo con l’aldilà celeste e con il mondo di mezzo purgatoriale non si è mai interrotto, ma soltanto riadattato alle epoche e ai costumi. Tra meno di un mese, l’8 dicembre, riaprirà dopo cinque anni il Cimitero delle Fontanelle, il più grande ossario di Napoli, grazie a un progetto di riqualificazione firmato da Renzo Piano e con l’affidamento del sito alla cooperativa La Paranza, animata proprio dai ragazzi cresciuti da don Loffredo nell’enclave della Sanità. Torneranno a dialogare con il loro popolo, malgrado le interferenze dei turisti visitatori, i crani delle “anime pezzentelle” tra cui alcuni celeberrimi come Concetta (il teschio che “suda”) e l’irascibile Capitano, identità attribuite dopo averle desunte dai sogni o nei labili dormiveglia, quando i titolari di quei resti sconosciuti stipulano un rapporto contrattuale con chi si prende cura di loro spolverando le ossa e recitando preci per accelerarne l’ascesa in cielo, però a fronte di un reciproco aiuto a chi sta ancora qua.

 

Nessun veto ecclesiastico, nessuna chiusura ha soffocato il rapporto tra anime vive e morte che ha trovato negli ultimi anni anche altri luoghi e mezzi di espressione. Prima furono gli altarini stradali a imitazione di quelli dedicati ai santi e al Purgatorio, che già illuminavano con la fioca luce dei ceri i vicoli della città settecentesca. Poi sono stati e sono i murales, dove i volti di qualche lutto privato vengono pubblicizzati e riprodotti sulla falsariga delle pitture dedicate ai personaggi celebri viventi o scomparsi, da Maradona a Totò e Peppino, da Pino Daniele a Nino D’Angelo. Infine è stata la volta di quelle che Marcello Ravveduto, docente di Storia contemporanea dell’Università di Salerno e studioso dei processi di modernizzazione delle mafie, definisce le “tombe digitali”: ossia i luoghi del web dove si conservano e si celebrano le memorie beatificate pure dei trapassati più pravi. Li definirono i “santi di Gomorra”: un ossimoro che mette sullo stesso piano, per proclamazione popolare, le vittime del male e del bene perché “oggi i processi di santificazione hanno quale comune denominatore la violenza subita che fa di ogni vittima un martire, anche se si tratta di un morto ammazzato in una faida tra clan di camorra o mentre commetteva una rapina”, nota Ravveduto. “La collocazione dell’effigie dentro un altarino o su un murale ricalca i meccanismi della religione cattolica e della società civile. Chi rappresenta la pubblica immagine della vittima di un’impresa criminale nel modo in cui sono rappresentati Falcone e Borsellino, Peppino Impastato o Giancarlo Siani, lo fa per reclamarne un’analoga santificazione. Le rapine o gli omicidi di cui si macchiò da vivo non vengono considerati più come reati, perché la scelta criminale è giustificata in maniera vittimistica e viene ascritta al bisogno, alle colpe della società, al disinteresse delle istituzioni. Le famiglie e i conoscenti diranno sempre che in fondo quello era un bravo ragazzo, che fu tutto sommato un innocente”.

 

Nell’ambito celeste dei santi alla rovescia, al più nell’anticamera purgatoriale però mai all’inferno, trovò posto per esempio Genny Verrano, assassinato da un rivale ai Quartieri Spagnoli nel 2017. Il suo altarino kitsch fu decorato col simbolo del Rolex sotto la fotografia, quasi a onorare l’attività per cui era stato noto alle polizie di mezza Europa, perché per rapinare gli orologi si era spinto anche oltre i confini nazionali. Un murale prima rimosso, poi riproposto con un affresco molto più complesso dallo street artist Blu, è stato dedicato al quindicenne Ugo Russo cui pure Zerocalcare ha intitolato una storia. Per lui la famiglia chiede “verità e giustizia” nel processo al carabiniere fuori servizio che nel 2020 gli sparò mentre l’adolescente tentava di rapinarlo con una pistola giocattolo. Anche Russo, un “bravo ragazzo”, fu ritenuto vittima di una fine immeritata, e i suoi amici si sfogarono con la devastazione del pronto soccorso ospedaliero dove era stato trasportato e con gli spari contro una caserma dei carabinieri (dettagli ritenuti marginali da Zerocalcare, sicché nella sua storia non ne fa menzione). “Lo stato in silenzio e i criminali santificati”, commentò un articolista del quotidiano Il Mattino.

 

La lista degli “innocenti per definizione” di Marcello Ravveduto o dei “teneri assassini”, come titolò un saggio lo storico delle mafie Isaia Sales, si è arricchita nel tempo con gli affreschi di diversi santini poi parzialmente cancellati per l’indignazione dei benpensanti contro l’indignazione dei beatificanti. Un caso tragico con ulteriori strascichi funesti fu quello di Luigi Caiafa, omaggiato con una gigantografia a Forcella commissionata all’artista Mario Castì Farina, autore pure di un murale dedicato a Maradona a Pozzuoli. Luigi fu ammazzato anche lui nel 2020 da un poliziotto mentre commetteva una rapina assieme al figlio dell’ex capo ultrà del Napoli, Genny ‘a carogna. Qualche mese dopo suo padre Ciro perse la vita in un agguato camorristico, mentre il fratello Renato è finito dietro le sbarre giusto un anno fa per avere ucciso un cugino con un colpo di Beretta calibro 9 alla testa (“ma era per gioco”, si giustificò, “non volevo sparargli”). Eppure scritte inneggianti a Caiafa riappaiono ancora sui muri dei decumani al pari di quelle in memoria di Emanuele Sibillo, alias ES 17, il capo della “paranza dei bambini” che è stato oggetto per molti giovanissimi di un culto affievolito, ma non spentosi, dieci anni dopo la sua morte per mano di una cosca rivale. Le sue ceneri, assieme a un busto che lo raffigurava, erano collocate in una grande cappella votiva fatta erigere dai genitori del baby boss nell’androne del loro palazzo, finché nel 2021 la Procura ordinò lo smantellamento accusando la coppia di estorsione e violenza privata per avere imposto al condominio la struttura e le spese di illuminazione. I Sibillo comunque sono stati assolti con formula piena dal Tribunale a marzo scorso, perché gli abitanti dello stabile hanno smentito le tesi dell’accusa negando di avere ricevuto pressioni dagli esponenti del clan. Perciò magari la cappella sarà riallestita, anche se è stato consegnato al Museo Criminologico di Roma il busto di ES 17, dinanzi al quale hanno sfilato per anni sia affiliati dei Sibillo sia giovanissimi incensurati ammaliati dall’aura di Emanuele. Anche se non hanno emulato le sue gesta criminali ne hanno spesso adottato il look con barba lunga “alla jihadista”. “Quell’altarino è stato rimosso ma di ES 17 resta la tomba digitale, una fra le tante di cui è popolato il web, dove i filmati e le fotografie fungono da reliquie assicurando la permanenza del corpo al di là della corporeità”, osserva Ravveduto. Più durevole della sua cappella votiva, e anche meno macabra, la rappresentazione virtuale di Sibillo lo esibisce nei momenti di tenerezza e nelle intimità famigliari che sembrerebbero quelle di un ragazzo qualunque nel video di poco più di quattro minuti, con la colonna sonora di “E’ per te” di Eros Ramazzotti, postato su YouTube nel novembre di dieci anni fa. 

 

La santificazione al di là del bene e del male, la memoria pubblicizzata e depurata da chi la custodisce per affidarla all’emozione collettiva, la ripetizione di modelli religiosi o civili che assimilano il caduto in uno scontro fra spacciatori a un soldato difensore della patria, trasformano ogni altarino nella deformata replica della cappella di un beato o della lapide in onore di un eroe. C’è chi è unto dall’olio miracoloso di san Charbel e chi si spruzza il profumo ‘O Lione, ideato e propagandato su Instagram da Nunzia Giuliano in memoria del padre Carmine, defunto boss ai vertici del clan che dominò Forcella per decenni e che paradossalmente contemplava, tra le attività illegali, la contraffazione di profumi. “Il messaggio è che chi si spruzza sul viso ‘O Lione si sentirà un po’ come Carmine Giuliano” commenta Ravveduto. “E’ una santificazione operata attraverso la società dei consumi”.

 

Forse si può capire meglio tutto questo senza essere blasfemi o conformisti, forse si possono capire meglio san Diego in processione, le apparizioni di Totò e la fede in don Dolindo, le conversazioni con Concetta e il Capitano, persino l’aura di innocenza dei delinquenti senza aureola se soltanto si va a spendere un quarto d’ora nella chiesa di santa Caterina a Formiello, dalle parti di Porta Capuana. E’ qui che sono raccolte le teste di 240 dei santi martiri decapitati a Otranto dai turchi nel 1480; è qui che ci si imbatte, e adesso lo si può pregare, in un ritratto dell’ultimo re Borbone detto affettuosamente Franceschiello, perché la Chiesa intanto lo ha riconosciuto servo di Dio e ne ha avviato la causa di canonizzazione sulla scia della madre Maria Cristina, proclamata beata nel 2014; ma è sempre qui, alla presenza di santi e Madonne e di quei crani decollati, che gli storici collocano la nascita ufficiale della camorra. Come per sacralizzarne la fondazione, fu all’interno della maestosa chiesa che venne recitato per la prima volta, in un giorno del 1842, lo statuto in ventisei articoli con cui si stabilivano le regole della “Bella Società Riformata”. Le storie più appassionanti sono quelle che si possono spiegare anche quando non si capiscono.
 

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