L'ultima dei cattivi

Da Meloni a Scalfari, dal femminismo alla morte della sinistra. Intervista a Natalia Aspesi

Salvatore Merlo

Novantacinque anni di spudorata verità: la sinistra è morta, il giornalismo di oggi noioso, il populismo un orrore e “mi piace come le sorelle fasce Meloni hanno licenziato i mariti tonti”

Pure i suoi lettori sul Venerdì di Repubblica “recentemente mi sono sembrati un po’ stronzi. E chiedo scusa per il turpiloquio, ma non c’era altro modo di dirlo”. Poi dice che Giorgia Meloni è bravissima, “sa persino le lingue”. Ma subito dopo aggiunge: “E’ fascista e ha scelto apposta tutti i ministri scemi. Non ce n’è uno adeguato”. Altro testacoda ironico: “Durerà un’eternità”. Quindi dice che anche Lilli Gruber, come Meloni, “è bravissima”. Sguardo sardonico. Voce che si abbassa di un tono: “In quella trasmissione non si capisce niente. Mica è informazione. E’ una sceneggiata col tonto-vittima, Bocchino, e con il killer-orrido, che è Travaglio. Appena lo vedo spengo la televisione”. Natalia Aspesi è fatta così: sferza e carezza nella stessa frase. E’ cattiva per precisione, non per crudeltà. Dice una cosa e il suo apparente contrario con la stessa naturalezza con cui si cambia gli occhiali. E quindi spiega che la Schlein “mi fa simpatia”, e ha pure votato Pd alle elezioni. Pausa. “Però che posso dirle… mi pare che la sinistra non esista più. E’ finita. Morta. E poi Elly Schlein è circondata da Conte, che mi fa spavento, e da quei due”. Quei due chi? “Ma sì, quei due… i fratelli De Rege, com’è che si chiamano?”. Bonelli e Fratoianni? “Ah, sì loro. Io li chiamo così: i fratelli De Rege, che era lo sketch di Walter Chiari. Stanno sempre insieme, dicono le stesse cose, non aumentano di una riga. Due che si passano la parola e non succede mai niente”. L’ironia è il suo modo di credere ancora alla realtà, la malizia è il suo modo di difendersene. Con Natalia Aspesi persino la fine del mondo non è una tragedia, è un titolo perfetto: “Cosa vuole che le dica, attendo la bomba atomica di Putin per addormentarmi”. Non odia nessuno, ma non salva nessuno. E a novantacinque anni (“aspetto la morte con un po’ di curiosità, voglio vedere com’è”) ha una libertà di tono rara: “Oggi mi pare vada di moda il pettinare ogni cosa per il verso giusto. Io, se ho avuto un po’ di successo nel giornalismo, è stato perché esercitavo la critica maligna, e facevo ridere. Ai miei tempi questo ti faceva persino diventare ricco. Ho guadagnato tanto, sa. Mi ricordo quando ricevetti un’offerta dal Corriere della Sera...”.  E insomma, racconta Natalia Aspesi: “Mi incontrai in un albergo con il direttore del Corriere, Ugo Stille. Solo che non sapevo che in quello stesso albergo dormiva Eugenio Scalfari, a Milano. Ci vide. Il giorno dopo mi chiama: ‘Quanto guadagni? Ti raddoppio lo stipendio’. Ecco. Mi è successo un altro paio di volte dopo quella. E mi sono comprata anche questa grande casa che vede”. La stanza in cui mi riceve, in un bell’appartamento del centro di Milano, alle spalle di via Torino, quasi non ha pareti. Le librerie, altissime, chiudono lo spazio come mura di carta: volumi fitti ordinati per materia e per colore – la moda è viola, il cinema giallo, l’arte neutra, la Francia e l’America separate da una scala di scaffali che sembra una frontiera. Ogni ripiano è colmo, ma non confuso: è un ordine privato, la memoria che si tiene in equilibrio. Il pavimento è di un parquet chiaro, a listarelle sottili, semplice, con la bellezza dei legni vissuti.

 

 “Scalfari? Al giornale erano tutte innamorate... del potere, ovviamente. A me non mi ha mai guardata”

Poco prima della scrivania, appeso su una parete in parte nascosta dagli scaffali, c’è un quadro che cattura lo sguardo. Raffigura una donna che porge la fede nuziale a un’altra donna seduta a un tavolo: è Oro alla patria, “uno dei dipinti premiati al Premio Cremona nel 1943, roba fascistissima. Roberto Farinacci”, racconta Aspesi. In basso si legge la parola “Fide”: non una firma, ma un riferimento diretto al soggetto, alle fedi donate dalle donne alla patria in tempo di guerra. Il quadro ha toni seppiati, austeri ma malinconici, e in quella stanza sembra quasi un paradosso affettuoso: una scena di sacrificio femminile appesa nella casa di una donna che non si è mai sacrificata a niente.


La scrivania è piccola, posizionata perpendicolarmente alla finestra. Dalla finestra entra una luce lattiginosa che scivola sul legno del tavolo, dove regna un disordine preciso: fogli, giornali, ritagli, lettere aperte, appunti scritti a penna. Fra tutto quel bianco e nero, spicca un piccolo quadro di Emilio Isgrò. Sopra, cancellature fitte e parole superstiti, è il regalo per il suo novantacinquesimo compleanno: “Cara Natalia, 95 rondini, 195 rondini, 200 primavere”. E’ appoggiato contro una pila di quotidiani, mezza coperta da un taccuino e da una tazza vuota. Seduta alla scrivania, eccola, Natalia Aspesi, indossa un paio di pantaloni di flanella grigia e un golfino dello stesso colore. E’ composta, con le mani ferme e un’espressione assorta. Davanti a lei non c’è un computer, e nemmeno una Olivetti Lettera 22, ma un tablet con una tastiera. E’ qui che scrive i suoi articoli.


Intanto una curiosità: che impressione le fa l’idea che Repubblica venga venduta? “Non so se sia vero, ma io penso che John Elkann ha preso Repubblica perché c’era, ma non gli interessa. Se la vende, per me può venderla a chiunque, anche a questo greco, anche a uno scemo fascista amico della Meloni. Tanto è la fine”. Che avrebbe detto Eugenio Scalfari? “Non ne ho idea. L’ho frequentato poco. Lo stimavo, certo, ma non mi stava simpaticissimo”. Lui faceva un giornale vivace, libertino. “Ah, libertino lo era di sicuro, Scalfari. Le ragazze a Roma erano tutte innamorate di lui, e quando la cosa diventava complicata le mandava su a Milano, a dimenticare. Quindi passavano tutte da qua prima o poi. Me lo ricordo bene: una segretaria, poverina, una bella ragazza con due tette così, arrivò da Roma piangendo perché era stata pure lasciata dal ragazzo”. Anche le giornaliste erano innamorate di Scalfari? “Eh, come no. Io andavo raramente a Roma, ma quando andavo c’era la porta del suo ufficio chiusa e davanti le signore che andavano avanti e indietro, tutte innamorate... del potere, ovviamente. A me lui non mi ha mai guardata”. Era un libertino Scalfari. Ma io intendevo: intellettualmente, non dal punto di vista erotico. “Direi di sì, nel senso che era fantasioso. Una volta mi chiese di fare un’inchiesta intitolata ‘Belle ma intelligenti’. Voleva fare una cosa un po’ stravagante. E’ il genere di giornalismo che oggi mi pare non usi più”.  Recentemente Natalia Aspesi è entrata in polemica con i suoi lettori nella rubrica del Venerdì di Repubblica. Tutto è nato da un articolo di Mariarosa Mancuso, che sul Foglio aveva criticato “The Voice of Hind Rajab”, un film presentato a Venezia sulla condizione palestinese. Alcuni hanno reagito come se avesse tradito un imperativo morale.

 

“Per me Elkann può anche vendere Repubblica a un fascista scemo amico di Meloni. Tanto è la fine”

 

“Io le ho dato ragione: anche criticarlo è un diritto. Da lì sono arrivate decine di lettere – indignate, aggressive, uniformi. Dicevano: ‘Torna a parlare d’amore’. Ma chi legge la mia rubrica sa che ‘i ragazzi’ che mi scrivono hanno tutti sui novant’anni. Alla mia età, sa, non si pratica tanto l’amore o il desiderio giovanile. Quindi quando ho capito che quelle missive erano fasulle – tutte dello stesso tono – ho pensato tra me: ‘Sono proprio stronzi’”. Quando ha difeso la Mancuso ha toccato un tema che oggi divide in modo feroce, la questione israelo-palestinese. “Una cosa mi ha colpito, vedendo i filmati e le immagini che arrivavano da Gaza: non c’erano mai donne. Gli uomini parlavano, agivano, aiutavano. Le donne apparivano solo con l’hijab, a piangere accanto ai morti. Mi è sembrato un segno terribile, come se in quella società la donna non esistesse ancora come individuo ma solo come madre o vittima. Adesso qualcuna se ne vede, ma io ci bado sempre: quando nelle immagini si vedono solo uomini, vuol dire che lì la donna non conta. Sarà giusto? Non credo”. Quante lettere riceve? “Tantissime. E anche telefonate, da lettori, da sconosciuti. Oggi che non c’è più l’amore, la gente mi chiama, mi scrive, mi racconta. C’è bisogno di parlare, perché non si parla più. Ma nella vita personale è diverso: quando si è vecchi – lo dico per me – non ti telefona più nessuno, a me non importa, anzi se non mi chiama nessuno è meglio, ma capisco che c’è tanta gente che non sa con chi parlare, a chi dire cosa pensa. Mi fanno pena, perché io, in realtà, starei zitta con tutti”. Non si direbbe. “No, guardi che io sono una gelida. Non parlo mai con nessuno. Non ho amicizie, non mi interessa”.


Eppure ha conosciuto e frequentato tantissime persone, in tutto il mondo.
“Sì, morte però. Sono morte tutte”. Ho letto da qualche parte che lei si intrufolò nella stanza d’ospedale di Gino Paoli, dopo il tentato suicidio per amore di Stefania Sandrelli. “Me lo ricordo bene. Era ricoverato, io avevo una pelliccia con la fodera interna, bellissima, non ce l’ho più quella pelliccia.. me l’hanno rubata”. Chi gliel’ha rubata? “Non ho avuto una donna delle pulizie che non mi abbia rubato qualcosa... ma le dicevo di Gino Paoli”. Sì. “Con la mia solita aria da brava signora, andai da lui che aveva ancora dentro il proiettile che s’era sparato al cuore. Gli feci l’intervista”. Con la pelliccia. “Con la pelliccia. Nessuno mi cacciò fuori perché sembravo una visitatrice gentile e un po’ svanita. Anche lui era contento. Si mise a parlare, non mi ricordo più di che cosa. Ma io ho sempre fatto così. Era una tecnica. Anche con i Beatles: salivo sul treno, facevo la signora che non capiva nulla, dicevo ‘che bravi ragazzi’, e quelli gentilmente parlavano”.


Lei si è sempre definita una donna di sinistra, femminista. “Mica tanto femminista. Lo sono stata molto agli inizi, quando ero giovane. Poi non so... oggi penso che forse si stava meglio quando si stava peggio”. Da donna di sinistra, spesso lei rompe i cliché della sinistra. Quando per esempio difende la Mancuso che è politicamente scorretta, lei lo fa da sinistra. “Una volta ho anche detto che non sopporto la parola ‘femminicidio’. Agli inizi mi dava fastidio, poi mi ci sono abituata. Però è una parola antipatica: usare ‘femmina’ per dire che una donna è stata uccisa è brutto. Ma ormai la diciamo tutti, femminicidio”.


Che differenza c’è, secondo lei, tra una femmina e una donna? “Guardi, io ho sempre pensato che la parola ‘femmina’ sia biologica, quasi animale. ‘Donna’ invece è un’altra cosa. Le donne hanno una loro fisiologia che, verso i quarantacinque o cinquant’anni, si trasforma: la natura spegne la capacità di fare figli, ma in cambio, paradossalmente, regala una nuova bellezza. A quell’età si vedono donne meravigliose, di sessant’anni anche, che non hanno più bisogno di truccarsi, di farsi giovani. Sono belle e basta, in modo naturale, pacificato. Il problema sa qual è? Il problema è che gli uomini, per istinto, lo sentono: dentro di loro sanno che con quelle donne non possono più fare figli. E allora qualcosa si rompe. Possono trovarle bellissime, ma un riflesso antico dice loro ‘non si può’. E’ stupido, lo so, ma penso che in fondo funzioni così. E questo dovrebbero ricordarselo anche le ragazze di oggi, tanto prese da se stesse, comuniste o fasciste che siano. Possono essere libere, moderne, quello che vogliono, ma non dovrebbero dimenticare che esiste una parte biologica, una verità del corpo. E’ da lì che viene la differenza tra ‘femmina’ e ‘donna’. Ecco, forse non si è mai fatta la rivoluzione giusta: quella che insegnasse alle donne a conoscere e accettare la loro natura”.


Lei si sente ancora di sinistra? “Ho votato il Pd non perché ci creda, ma perché, insomma, qualcosa bisogna pur votare. Ma come si fa a essere di sinistra quando la sinistra non c’è più?”. La sinistra si è spostata dai temi del lavoro a quelli dei diritti.
“Eh, io non ci capisco più niente. Tutte queste cose nuove, di chi cambia sesso, di chi non sa più se è donna o uomo… sono cose che comprendo, ma non mi sembrano giuste. Anche perché io ho intervistato Vladimir Luxuria: bellissima, simpatica, molto carina. Ma, insomma, sei una signora che è ancora un po’ signore, che ama gli uomini come una donna ma prova piacere come lo provano gli uomini... Lo dico con simpatia, ma non riesco a capirlo davvero. Non è una colpa, è che non lo capisco”. E delle due sorelle Meloni che hanno “licenziato” i rispettivi mariti cosa ne pensa? “Ah, quello mi diverte molto. E’ una forma nuova di patriarcato al contrario. Loro hanno capito che per la loro attività politica l’uomo è solo una rottura di balle. Non è più da amare, è da sopportare.

 

“A Gaza le donne si vedono solo col velo, a piangere. Non come individui, ma come madri o vittime. Lì non contano”

 

Hanno preso due tipi bellocci, uno tonto e uno ‘più tonto’, e li hanno mandati via. Con freddezza, proprio da capi. E poi mantengono comunque i rapporti di famiglia, con i padri delle figlie, tutto regolare. E’ la loro forma di emancipazione: niente drammi, solo efficienza. Le ammiro, in fondo”. Le fanno simpatia? “Non simpatia. Direi che mi incuriosiscono. E’ un modo nuovo, un potere femminile che non chiede scusa a nessuno. Non lo avevamo mai visto in Italia. Detto questo, io penso che Meloni sia una fascista, lo scriva”.

[A un certo punto squilla il telefono. Natalia Aspesi risponde e, con tono affettuoso e un po’ teatrale, chiama l’interlocutore “bambolino”, si informa del suo viaggio in Giappone, lo rimprovera per non averla chiamata, poi lo invita a venire a trovarla: “Porta le foto”. E’ una scena breve e irresistibile, piena di quella disinvoltura che fa parte del personaggio. Quando riattacca, mi guarda e sorride:
“Scusi, era il mio medico”. Bambolino.]

Ha visto che in Campania il centrosinistra ha deciso di candidare Roberto Fico al posto di Vincenzo De Luca? “Ah, ma è una follia! Fico è la radice quadrata di zero. De Luca invece è simpaticissimo. Io l’ho conosciuto tanti anni fa, quando era sindaco di Salerno. Un uomo intelligente e di una simpatia naturale. Quando la Schlein ha detto ‘non lo voglio più’, ha sbagliato. De Luca è amatissimo, davvero. Lo chiamavano ‘cacicco’, mi pare, per dire uno che comanda troppo. Ma se anche fosse, meglio un cacicco che un noioso. Io lo trovo delizioso”. E Giuseppe Conte? “Mi fa orrore. E’ un populista educato, che è anche peggio. Sorride, spiega, predica, e pensa di essere buono. Ma il populismo gentile è sempre una truffa: ti fa credere che ti somiglia, invece ti tratta da cretino. E io i populisti li ho sempre detestati, da destra e da sinistra”. La televisione la guarda?
“No, mi annoio da morire. Guardo solo qualche film la sera, su Netflix. Tutto il resto mi deprime. Non sopporto quei programmi dove sono sempre gli stessi, lei lo sa, la Gruber, Bocchino, Travaglio, sempre quelli. Parlano tutti insieme, si interrompono, e alla fine non si capisce più nulla.

 

 “Voto Pd, perché qualcosa si dovrà pur votare. Ma non capisco come preferiscano Fico a De Luca. E’ la radice quadrata di zero”

 

E’ un modo sbagliato di fare informazione: dando voce a tutti non resta niente. Così la gente spegne. Io per prima”. Una volta lei disse di temere di accendere la tv e trovarci Travaglio. “Ah beh, quello è... io lo detesto. Lo detesto perché, prima di tutto, viene da Montanelli, e questo mi basta. E poi ha quel modo di parlare... Poi tiene a Conte. Io non so lei, ma per me è un orrendo”. Montanelli, invece, lei l’ha conosciuto. “Sì, l’ho conosciuto tardi, ma l’ho conosciuto. Era un fascista vero, non di facciata. Poi, alla fine, è diventato quasi simpatico. Veniva nella mia casa in campagna, a Montemarcello. Era molto anziano, non faceva più nulla. Io gli preparavo qualcosa da mangiare, chiacchieravamo. Era tenero, alla fine”. Enzo Biagi? “Bravo, ma pesante. Faceva sempre il buono, il giusto. Non ne potevo più. E’ che a quell’epoca c’era un modo di essere giornalisti molto maschile, un po’ sacro. Io non sopportavo la seriosità”. E Giorgio Bocca? “Una volta mi disse: ‘Perché non ti metti le gonne lunghe fino ai piedi, come quelle di mia moglie?’. Io portavo gli hot pants. Gli risposi: ‘Perché no, mi piacciono i pantaloncini’. E lui rimase zitto”.


Se dovesse spiegare a una ventenne cosa significa “scrivere bene”, da dove comincerebbe? Dalla punteggiatura o dalla cattiveria? “Dalla cattiveria, sempre. Io sono diventata qualcuno perché facevo sorridere, e facevo anche un po’ paura. Oggi, se provi a far ridere, ti ammazzano. Non si può più essere cattivi, non si può più essere maliziosi. Devi sempre parlare bene, pettinare le parole. La cattiveria era una forma di intelligenza. Oggi non è più permessa, e per questo il giornalismo è diventato noioso”. E allora, oggi, chi scrive ancora bene? “Guia Soncini. E’ bravissima. Scrive con una malizia intelligente. Io la trovo un genio”. E perché non lavora in un grande giornale, Guia Soncini? “Forse perché il talento spaventa i mediocri... e poi: quali sono i grandi giornali?”. E tra le sue maestre, chi le è rimasta più cara, Irene Brin o Camilla Cederna? “Brin era carina, ma soffocata dal marito che la teneva sotto. La Cederna invece era un massimo di meraviglia”. E a questo punto Natalia Aspesi si ferma un attimo, getta lo sguardo sulla scrivania. “Guardi, l’altro giorno mi hanno portato questo libro mio, di molti anni fa. Non mi ricordavo nemmeno di averlo scritto. L’ho aperto e ho pensato: accidenti, quanto ero brava”. Sorride, senza civetteria, con la soddisfazione di chi ha fatto il proprio mestiere e sa di averlo fatto bene. “Eh sì, ero proprio brava”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.