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La decadenza delle cabine

Fabiana Giacomotti

Erano il simbolo dell’estate “stessa spiaggia stesso mare”. Non solo un fatto di rincari, ma di mutati gusti vacanzieri

Visto che nulla deve fare più fragore, cadendo, degli idoli, la moda social delle ultime settimane è di prendersela a mezzo video con i produttori di accessori di lusso e i balneari, cioè con i due simboli del nostro benessere fino all’altro ieri. Già del tutto dimenticata la love cam delle corna al concerto dei Coldplay, tranne si intende dal fedifrago che, dopo aver perso moglie e poltrona dirigenziale, oggi tenta inutilmente di far causa alla band, nella classifica del gradimento social le invettive sul caro-ombrellone hanno superato perfino i commenti su “Temptation Island” e gli avvocati incapaci di imbroccare un congiuntivo, mentre i comici fanno a gara per inventarsi scenette e battute sui liguri che in spiaggia ti fanno pagare anche l’aria che respiri e che, scusate, non è una gran trovata, noi milanesi ce lo diciamo dagli anni Sessanta delle strisce di focaccia a duecento lire e dei quartieri di palazzine del geometra costruite sui greti dei ruscelli in spregio ai piani regolatori e a un minimo di coscienza civile.

 

                  

In alternativa alle invettive sulle cabine a ventimila euro a stagione e la frisa gourmet cioè con un po’ di tonno sminuzzato fra i pomodori a ventisei, fra Instagram e TikTok alligna una pletora di signorine dalle unghie arcuate e le ciglia a spazzolone che, col piglio del reporter sul campo, ti spiegano perché non abbia più senso spendere tremila, ma anche seimila euro per certe borsette che, come si è scoperto dalle inchieste della procura di Milano ma loro l’avevano-sempre-sospettato, costano al massimo sessanta euro, questo ovviamente senza che includano mai nei loro calcoli i costi di distribuzione e di vendita, gli stipendi, il magazzino, la pubblicità, che magari non fanno lievitare la cifra di trenta volte, che è stato il moltiplicatore medio suicida dei ceo allevati sui manuali del manager di successo negli ultimi anni, ma di dieci-quindici di sicuro: ma d’altronde, dei calcoli interessa zero a tutti, essendo l’obiettivo delle suddette tiktoker l’indignazione condivisa, il like e sperabilmente il commento

L’amica Nora Parini, storica comunicatrice di beni anche mass market, che trascorre le vacanze come sempre al Forte e al celebre bagno Piero che non ha mai ceduto alle lusinghe dei brand avidi di un nuovo posizionamento fra chi vanta più quarti di nobiltà di loro, dice che tutto è più o meno nella norma, che le tende sono vuote la mattina perché tutti scendono a mare sul tardi tranne lei che ama il silenzio e, credo, Roberto Zaccaria che a quanto vedo dalle foto che posta arriva presto e legge i giornali, ma non ci sono dubbi che l’estate del 2025 segni la fine dei due modelli di consumo che, almeno per quanto riguarda l’Italia perché le procedure di infrazione per violazione delle regole sulla concorrenza a Bruxelles le hanno aperte solo per noi e adesso, come sempre, sarà il mercato a ridefinire modi e prezzi, hanno contrassegnato l’immagine plastica del benessere negli ultimi tre decenni. Il mito della spiaggia allestita, del rito della sabbia e dell’ombrellone condivisi, risale addirittura dagli anni del boom e, nella versione altoborghese, includeva la cabina prenotata per tutta la stagione, anche se, anzi soprattutto se, sarebbe stata frequentata fino alla fine di luglio “perché agosto noi lo trascorriamo in montagna”, e la borsetta-del-momento, vissute anche in sovrapposizione e combinazione, e questo fu un po’ l’inizio di tutto. L’acquisto della sportina estiva falsa ma griffatissima sotto l’ombrellone dal vucumprà che oggi, avverte la Treccani, è espressione ormai desueta, mise a nudo l’ovvio, e cioè che, eccezion fatta per certa metalleria di rifinitura che per essere di qualità è davvero costosa, e ovviamente sulle pelli pregiate come il coccodrillo, con le tele cerate prodotte in serie è facile barare e dunque spacciare il falso per il vero

Dagli inizi dell’èra dell’ambulante di borsette contraffatte, le griffe si sono convinte, e hanno tentato di convincere chiunque le stesse a sentire, che più ancora dell’oggetto, cioè della borsetta in sé, contasse l’experience, in pratica la soddisfazione di farsi servire in boutique come veri signori e di uscirne con la busta griffata, chiusa con i nastrini, sfoggiandola per la strada e sentendosi finalmente arrivati. Decenni prima dell’attuale crisi della moda e della grottesca diatriba delle Birkin false tra Francesca Pascale e la ministra Daniela Santanchè, fulgido esempio del mito aspirazionale spiaggia-borsetta di lusso, la moltiplicazione dei vucumprà rese evidente che le signore erano altrettanto soddisfatte, forse di più, di fare fesse le amiche, tacitando senza problemi la propria coscienza sul genere di mercato che alimenta la contraffazione, ma anche convinte, e non senza ragione, del confine labilissimo fra certi beni di lusso presunto cuciti non di rado negli scantinati e i loro omologhi venduti a cento euro sotto le tende del Forte che peraltro, un Twiga dopo l’altro, hanno preso l’aspetto della tenda beduina che Muammar Gheddafi piantò nella residenza dell’ambasciatore libico a Roma nel 2010 per la sigla del trattato di amicizia con l’Italia, sembra un secolo fa e invece sono trascorsi solo quindici anni.

Qualche sera fa, ospite di Stefano Ricci che da anni sostiene la Bocelli Foundation nello stabilimento del cantante, l’Alpemare un tempo frequentato da Eugenio Montale e Thomas Mann e che da poco è stato eletto nuovamente primo stabilimento d’Italia per qualità dei servizi, prima di sedermi al mio posto a una delle tavole allestite nella sabbia per lo spettacolo di droni che sono l’alternativa del momento ai fuochi d’artificio benché infinitamente meno seducenti, ho fatto un giro fra i tendoni vuoti domandandomi che cosa avessero di così speciale per costare fino a milleduecento euro al giorno, d’accordo la cassaforte modello albergo e le spugne alte due dita dei lettini materassati cambiate più volte al giorno perché c’è poco di più sgradevole di sdraiarsi nell’umido ed è per questo che i lettini vecchia maniera, di nylon, col telo di cotone o di lino ruvido steso sopra, al mare hanno molto più senso, ma insomma per quella cifra si trascorre una settimana in Spagna o sul Mar Rosso con un’acqua favolosa, non quella fanghiglia alta tre dita che in Versilia rende impossibile fare un bagno decente e per trovare l’acqua alta in pratica cammini fino all’Isola d’Elba.

E invece, questi tendoni fuori misura, sontuosi e terribili, affittati ormai esclusivamente da stranieri, nell’ordine “americani, russi, ucraini, svizzeri, arabi”, come dicono molto orgogliosi nelle interviste i direttori dei suddetti stabilimenti dei tendaloni e traetene le conclusioni che volete, vanno sostituendo nell’immaginario ma anche nell’iconografia condivisa le vecchie cabine – in Liguria in muratura o in legno, in Versilia sempre di legno ma con una graziosa verandina – della nostra infanzia. Quei due metri quadrati dove ogni sera, da piccoli, riponevamo le conchiglie e i sassolini colorati che poi avremmo incollato con certi adesivi tenacissimi ai bracciali di plastica da vendere alle amiche della mamma che, povere loro, mai avrebbero osato negarci quelle cinquecento, mille lire da spendere in plurimi coni cioccolato e pistacchio, e che pochi anni dopo avrebbero occultato i primi baci e i frettolosi cambi di costume perché fuori c’era “la compagnia” che aspettava, sono la madeleine di decine di migliaia di noi cresciuti nei decenni della grande modernizzazione del Paese e dell’istituzionalizzazione del tempo libero: tre mesi di vacanza, e ogni anno stessa spiaggia stesso mare. 

 

Questi tendoni fuori misura, sontuosi e terribili, affittati ormai esclusivamente da stranieri, vanno sostituendo nell’immaginario ma anche nell’iconografia condivisa le vecchie cabine della nostra infanzia

                              

Il processo era iniziato col fascismo dei treni popolari di Ferragosto e come da film omonimo di Raffaello Matarazzo del 1933, ma era stato codificato e celebrato soprattutto dal cinema del dopoguerra, con la Cineriz che affiancava a sceneggiature d’evasione e parecchio risibili, lunghe riprese nei luoghi e fra gli oggetti del desiderio: Capri e la Canzone del Mare con le signore in cappelli a cono di paglia firmati Pucci, i bagni Excelsior di san Michele di Pagana scavati nella roccia a picco sul mare e le danze serali al Covo, l’hotel Regina Isabella di Ischia dove scendeva il padrone cavalier Rizzoli e da dove, in questi giorni, il sindaco di Forio ha implorato di annullare un evento con una tiktoker napoletana dall’eloquio smozzicato e il vasto seguito perché no, c’è un limite al trash e lui invece sta investendo da anni in attività culturali, vere o pretese che siano. La nostra vacanza di giovani esperitori di “quelle forme di socievolezza che costituiscono l’unico possibile terreno comune di un Paese carente di comuni processi di associazione”, come scriveva ormai quasi trent’anni fa il semiologo Ruggero Eugeni, iniziava quando la proprietaria dello stabilimento, nel mio caso un gestore perché il detentore della concessione, un’anzianissima signora di vecchia famiglia ligure che all’inizio del Novecento possedeva anche una discreta estensione del golfo Tigullio, si faceva vedere raramente e solo in gramaglie di pizzo al tombolo, ci consegnava la chiave della cabina, la stessa una stagione dopo l’altra. Aprendo la porta, si veniva avvolti dall’impagabile conforto olfattivo dell’odore del legno vecchio dipinto di fresco e scaldato dal sole, ognuno si concede la madeleine che può, ed era una sensazione bellissima, che si protraeva fino a quando fra i listelli si insinuava il lezzo dell’umidità e la mattina trovavi il pavimento ancora bagnato dell’ultimo bagno della sera precedente, segno inequivocabile che era ora di spostarsi appunto in montagna per le ultime due settimane di vacanza prima della ripresa dell’anno scolastico. 

C’è un perché se il cinema, quello delle commedie balneari di pura evasione come “Racconti d’estate” di Gianni Franciolini, di blanda denuncia sociale con Mario Carotenuto ambiguo industriale post-bellico ne “La spiaggia” di Alberto Lattuada o quello dell’impegno di Sergio Citti in “Casotto”, hanno fatto delle cabine singole dei benestanti, teatro di amorazzi, o appunto del cabinone collettivo, il casotto del titolo, metafora anche lessicale della promiscuità e del disordine, l’emblema di un’epoca che ormai ha imboccato definitivamente il viale del tramonto: l’etica e la narrativa del loisir, un tempo patrimonio dei ricchi e dei nobili con le loro spa e il Lido di Venezia, si apriva a un accesso democratico, favorito dalle auto comprate a rate e dalla voglia di rinascita, sebbene già Luciano Emmer, nella sua “Domenica d’agosto” che data 1950, siamo agli albori dell’epica della spiaggia come luogo di vacanza per tutti, avesse già intuito, e rappresentato in nuce, i germi della deriva che la società dei consumi avrebbe prodotto e che Ennio Flaiano avrebbe subito sottolineato sul “Mondo”, in un celebre articolo sulle “Bellezze al bagno” che indicava come la Ostia del film di Emmer, più che il “lido felice dove sbarcò Enea” ricordasse i “campi di concentramento”, e in quel “correre furioso dei bagnanti verso la spiaggia” il “pauroso avvertimento di una condanna, tanto più grave perché sollecitata come un premio dagli imputati stessi”. 

Comunque sia andata, e come è andata settantacinque anni dopo lo sappiamo, ormai è finita e, come per le borsette, se il rincaro ha inferto al sistema delle cabine in affitto una botta durissima, il cambiamento dei gusti gli ha assestato il colpo di grazia. Gli italiani, non c’è bisogno di una ricerca che ce lo certifichi sebbene ce ne venga offerta una al giorno perché basta guardarsi attorno, forse non hanno più i soldi, ma certamente non hanno più né il tempo né tanto meno la voglia di trascorrere l’estate in un luogo solo, la stessa spiaggia stesso mare un tempo traguardo di schiere di famiglie monoreddito. Le mogli sfaccendate e pigre narrate da Lattuada, che svacanzano nell’albergo sul mare per due mesi con i bambini intendendosela col bagnino dal lunedì al venerdì, salvo concedersi al marito in visita nel weekend in giacca e cravatta e immancabilmente accolto dagli sguardi di intesa degli altri villeggianti, sono state sostituite, e da decenni, da donne che lavorano, che nel migliore dei casi hanno due settimane di vacanza e che per due mesi affidano i bambini alternativamente alle madri, alle tate o ai kinderheim. In quelle due settimane, vogliono fare almeno un viaggio, non fosse altro per la gioia di arrivare alla stessa spiaggia stesso mare nell’ultimo weekend di agosto e lamentarsi della fatica e degli aerei in ritardo ma-ne-valeva-la-pena. E’ cambiata l’Italia, e i tendoni modello Gheddafi resteranno appannaggio esclusivo degli americanirussiucrainisvizzeriarabi. E d’altronde, come mi ha puntualizzato un paio di mesi fa la direttrice marketing di uno di questi bagni del Forte appena passati di mano, le vecchie famiglie come voi non ci interessano. Spendiamo troppo poco, e ci lamentiamo del dj set a mezzogiorno.

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