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il paradosso

No Unesco? Ahi, ahi, ahi. Le Dolomiti invase dai turisti non vogliono il bollino Onu

Alberto Mattioli

Non solo il riconoscimento serve a poco, ma può essere pure dannoso, perché scatena l’invasione turistica con conseguenti guai proprio per il patrimonio che vorrebbe tutelare. Lo diano a Rimini, svuotata dai bagnanti

C’è qualcuno che lo dice (finalmente?). Il riconoscimento dell’Unesco, l’equivalente storico-artistico-paesaggistico del bollino blu sulle banane Chiquita, non solo in pratica serve a poco, ma può essere pure dannoso perché scatena l’invasione turistica con conseguenti guai proprio per il patrimonio che vorrebbe tutelare. La constatazione, politicamente scorrettissima ma interessante, arriva da 78 albergatori e ristoratori delle Dolomiti sul Corriere delle Alpi. Il loro portavoce, Osvaldo Finazzer, spiega che l’Unesco dà ai siti “un’immagine da cartolina” che nulla ha a che vedere con “identità e cultura” e genera un circolo vizioso.

“I social amplificano il messaggio, l’eccesso di turismo aumenta la popolarità, che aumenta l’overtourism, e alla fine si chiudono gli accessi dando la colpa all’overtourism”, dice Finazzer. E’ il cane che si morde la coda, la smania di tutela che finisce per negarla (un nonsense così squisitamente italiano che stupisce sia di produzione internazionale) o, volendo volare alto, diciamo in quota, il solito contrasto fra Kultur e Zivilisation. Ma gli osti dolomitici non hanno dubbi: meglio rinunciare al bollino Unesco. Naturalmente la carica dei 78 ha scatenato polemiche, Luca Zaia ha criticato chi critica, gli ambientalisti sono insorti, e insomma l’impressione è che il quotidiano bellunese abbia trovato di che riempire le sue pagine agostane.

Unesco o non Unesco, resta però il problema. Di gente su quei monti ce n’è troppa. E allora avanti con i tornelli per salire al Seceda, con la prenotazione (massimo cento automobili all’ora) per le Tre Cime di Lavaredo, con l’autovelox al passo Giau, che almeno si faccia cassa. Ressa e risse per un selfie, alla ricerca di panorami “instagrammabili” il cui principale pregio è quello di essere esattamente uguali a quelli di tutti gli altri. Una crociera sul Banal grande, insomma: a proposito, anche a Venezia ci si lamenta del turismo mordi e fuggi, dove si morde per lo più il panino portato da casa o si divide per due lo stesso piatto di spaghetti, anche se i ristoratori di Venezia che deplorano il turismo cheap sembrano Erode che critica la carenza di posti negli asili. Senza contare, tornando alla montagna, che siamo in trepidante attesa di un altro classico agostano: il turista demente che tocca pure salvare dopo che è andato sulla ferrata in infradito (ma lasciarlo lì, no?).

Il paradosso è che nel resto d’Italia ci si lagna semmai del contrario, e dalla Versilia alla Romagna è tutto un pianto e uno stridore di denti perché i villeggianti sono pochi, spendono poco, restano poco e insomma sotto gli ombrelloni c’è gente solo nel weekend, e giù con le analisi e le statistiche sull’impoverimento del ceto medio ormai diventato basso (però prenotare un ristorante è un’impresa, quindi forse come al solito aveva ragione Berlusconi…). A ben pensare, una soluzione c’è. Rimini si faccia dare un bollino Unesco per qualcosa, c’è solo l’imbarazzo della scelta, per la sabbia, la piadina, il bagnino, la mora romagnola (che non è la bagnina ma un suino locale), e tutti i rompiballe delle Dolomiti si sposteranno lì.

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