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il tormentone
“Genocidio”, il posizionamento massimo. Se lo ignori non sei nessuno
Chi lo dice e chi no: è diventata la parola obbligatoria sui social e per scrittori, artisti, opinionisti
Non c’è la hit dell’estate perché quest’anno il tormentone è il genocidio. Una melodia orecchiabile. Un ritmo ossessivo. Una parola sola che si infila in testa e non va più via. Abbiamo ormai diviso l’umanità in due gruppi: quelli che dicono “genocidio” e quelli che no. Tentennano, ci girano intorno, restano in silenzio. Sono tutti “complici di genocidio”. Non c’è altra scelta: “Rimuovi dagli amici”. Ti devi esporre, lo devi dire in pubblico, perché non lo dici? Il genocidio non va mai in ferie, si porta sotto l’ombrellone, in spiaggia, con la canicola. Non ti annoi mai: ti spalmi la crema solare, apri Instagram, litighi con qualcuno che non riconosce il genocidio.
Come tutti quelli che l’hanno commentata sui social non ho letto l’intervista a David Grossman ma sul mio feed era diventata subito un claim, uno spot, tipo quelli delle radio, “ciao sono David Grossman e anche io dico genocidio”. Oppure, “eh no, non c’è abbastanza genocidio nelle parole di Grossman”. Siamo circondati da persone cui non frega e non è mai fregato nulla della Palestina, che di Gaza non sapevano quasi niente fino a ieri, che si sono fatti un’idea su Google o con i video di al Jazeera condivisi in chat, ma che ora ti tolgono il saluto se non dici genocidio. Sono al mare, scrollano Instagram, ma vogliono risolvere il dilemma del medio oriente con l’hashtag giusto.
Troviamo la parola adatta, il resto viene dopo. Non è neanche più un pezzo di propaganda politica, una categoria morale che se ne infischia dei fatti o del diritto se i fatti e il diritto si mettono di traverso: genocidio è il tasto midcult per far salire l’ascensore nei consensi social, con Lundini o Montanari o Selvaggia Lucarelli che spiegano a David Grossman come stanno le cose nella Striscia o a Liliana Segre che cos’è un genocidio (“è l’estate del mio genocidio, tu che ne sai?”, con voce da crooner, à la Fred Bongusto, potrebbe essere un gran pezzo). E’ diventato il parolone obbligatorio per scrittori, artisti, opinionisti. Quello che fa la differenza. Il posizionamento massimo. Come c’è la “fomo” da eventi social, per l’intellettuale militante c’è anche l’ansia di essere tagliati fuori da questa grande disputa. Ma è certo che saremo noi, qui, dal divano o dal lettino, a decidere. Ecco allora un senso di colpa per questa cosa che su Instagram va avanti magari senza di me, mentre sono in montagna a fare trekking dove prende e non prende e poi sembra che non me ne frega niente (no wi-fi, no genocidio). Una volta all’intellettuale militante bastava dire “antifascista” anche rispondendo a domande tipo “il tuo gusto di gelato preferito?”. Ora devi metterci “genocidio” se no non sei nessuno, esci dal giro, ti guardano storto. Ma vale per tutti. Guarda Chiara Valerio, poverina. Guarda Jovanotti. In questi casi, non resta che alzare il tiro. Stupiscili, spiazzali: “A Gaza non è genocidio, è ARMAGEDDON, signori. E ora provate a dirmi qualcosa”.

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