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estate con ester
Siamo stanchi di lavorare. Ma non è solo “burn out”
In attesa di un futuro a cui per ora manca l’intonaco, siamo stanchi. E il benefit che risolve il problema non esiste. Forse, è più noia che stress
Ci dobbiamo tutti dare una calmata, con questa voglia di fare poco che ci è venuta. Si sente un malessere nell’aria – specialmente al lavoro, qualsiasi lavoro – che tutti fanno la corsa a battezzare. Coi nomi alle cose si sta più tranquilli, si sa. Lo sfastidio è grande sotto al cielo, ormai si parla quasi solo di quello, l’avrete notato anche alle vostre macchinette del caffè, tanto che il Time scrive il titolo: “Perché tutti sono così stanchi di lavorare?”.
Siamo scocciati come tutti nella storia si son sempre scocciati di faticare, o è diverso? E perché ce lo ripetiamo ogni quindici minuti? La storia del burn out non convince, va avanti da troppo. Qui non c’entra lo stress, non abbiamo lo stress. O almeno è ai livelli soliti, non c’è nessun eccesso di carico mentale aumentato a dismisura in pochi anni. E’ una stanchezza più strutturale, mi sembra. Non guarisci con le vacanze o le dimissioni, inutile fare teatro organizzativo di welfare aziendale, ginnastica in pausa pranzo e vacanze tutti-insieme-noi-dell’ufficio-offre-l’amministrazione. La faccenda è più complicata di così.
Il benefit che risolve il problema non esiste. La questione è il vecchio mondo che è logoro, e il nuovo ancora non ha i componenti a posto. E in mezzo ci siamo noi, flosci e in attesa non si sa di che.
Dove viviamo adesso è una specie di binario morto. Abbiamo l’esaurimento esistenziale. E ci stanca non tanto perché è troppo ma perché è ancora troppo poco. Somiglia allo stato d’animo compresso e moltiplicato per mille che s’aveva quando a vent’anni innamorato e perduto aspettavi la telefonata e la telefonata non arrivava. Non potevi concentrarti su niente, una fiacca si impadroniva di tutto, fino alle ossa.
Negli ultimi vent’anni abbiamo preso i biglietti per il futuro nuovo, con una rivoluzione tecnologica dopo l’altra era chiaro che sarebbe arrivato. Ogni volta ci siamo detti: “Questa è quella che cambia tutto, ma proprio tutto”. Internet, i social, la superconnessione, il lavoro da remoto, l’intelligenza artificiale. Ma il risultato è che siamo sempre quelli di prima, solo più online e un poco più assenti nelle relazioni. Le perdite di tempo si sono moltiplicate, le energie si sono sparpagliate in mille videocall, mille finestre aperte, mille notifiche.
Non siamo in burn out, siamo annoiati dal presente. Siamo dentro la navicella spaziale ma i motori non partono. Il vecchio sistema è un tempo troppo caduto a pezzi per essere abitabile ma il tempo nuovo non è pronto, è uno scheletro, non ci si può entrare, mancano i muri, l’intonaco e le finestre, ci piove dentro.
E’ come se fossimo tutti in attesa del grande reboot. Al momento giriamo in tondo, esausti dall’attesa. Non è cosa diagnosticabile, gestibile o già vista. La stanchezza di cui parliamo ora è un’altra cosa: è la stanchezza da sospensione. Il salto evolutivo non si riesce a fare tutto intero.
Negli ultimi anni ci siamo raccontati che ogni cosa stava cambiando, adesso ci raccontiamo che l’AI toglierà tutte le fatiche, che ci daranno tempo libero a quintali, il robot multifunzione che lavora al posto nostro, la macchina che guida sola, lo psicologo in chat.
E mentre siamo lì, a far finta di crederci, qualcuno inizia a cedere. Gallup riporta che quasi più nessuno dei dipendenti si sente davvero convinto di quello che fa. Anche fuori dall’ufficio, gran peso e affaticamento. Sul New Yorker ho trovato un lungo e convincente paragrafo che si chiede se la capacità di lettura – quella continuata, lunga e concentratissima – sarà ancora realistico attendersela.
Per questo serve una calmata, ma proprio una calmata radicale. La verità è che non c’è ancora nessun nuovo mondo lì fuori, lo sbarco non sarà domani. La cosa è più lenta di come ci hanno promesso e ci sono buone possibilità che tutto resti com’è adesso ancora per parecchio tempo. Ti alzi, vai a lavorare, torni a casa, prepari la cena, un poco di televisione, ad agosto vacanze – e il mondo si divide in due, chi si lamenta e chi pensa “sono fortunato”.