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l'analisi

È tempo di far luce sul disagio dei Neet, i giovani da sempre inascoltati

Mario Leone

Il gruppo invisibile dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni, che in Italia tocca il 16 per cento della popolazione, non fa nulla e non attende nulla. La politica e le istituzioni educative e lavorative non se ne interessano perchè il dibattito pubblico li associa a un'immagine di pigrizia e disinteresse 

Sono fermi, impantanati in sabbie mobili esistenziali, quelle che ti impediscono di prendere decisioni, imboccare una strada, investire su qualcosa, tantomeno su di sé. Sono i Neet, giovani tra i 15 e i 19 anni “Not in Education, Employment or Training”, che dovrebbero essere impegnati nelle prime esperienze lavorative, se non già in carriera. E invece questo gruppo invisibile, che in Italia tocca il 16 per cento della popolazione (la media europea è dell’11), non fa nulla e probabilmente non attende nulla. La questione di coloro che non lavorano, non studiano né si formano, è entrata nel dibattito politico del Regno Unito negli anni 80, quando i funzionari si preoccupavano dei rischi e degli svantaggi a cui andavano incontro i giovani. Nel 1996 un funzionario del Ministero dell’Interno coniò l’acronimo. Da allora, il Neet è diventato un indicatore monitorato dall’Ue e dalle Nazioni Unite. In Giappone si parla invece di hikikomori, termine che riguarda un problema differente, legato anche a manifestazioni di dipendenza dalla rete.


I Neet non riscuotono l’interesse della politica o delle istituzioni educative e lavorative perché il dibattito pubblico “li associa a un’immagine di pigrizia e disinteresse, ricondotti spesso ad appellativi negativi quali choosy, sdraiati o bamboccioni”. Tuttavia, questa visione superficiale non tiene conto delle cause profonde che portano a questa condizione, e infatti il fenomeno è stato analizzato statisticamente e dal punto di vista socioeconomico. Il che, da un certo punto di vista, mette la coscienza a posto, ma non risolve nulla, come quando si analizza il calo demografico, l’arrivo degli stranieri o altri fenomeni della contemporaneità. Non si approfondisce uno stato – quello dei Neet – che ha radici ontologiche, svela disagi psichici e offre molte più informazioni sul “dove si sta andando” dei soli numeri. A contribuire alla comprensione di questo mondo sono adesso Federico Capeci, Valentina Meli ed Endri Basha, autori di  Neet: I 7 volti di una generazione in attesa (FrancoAngeli), un volume che cerca di spingere lo sguardo alle radici del “fenomeno che rappresenta una delle espressioni più emblematiche di queste tensioni. È, al tempo stesso, effetto e causa di una rete complessa di fattori storici, economici e culturali che hanno inciso in profondità sulle ultime generazioni”.


Il libro mette di fronte a un disagio generazionale che si origina in contesti educativi dove regnano marginalizzazione, ansia, disillusione, entitlement e idea di lavoro (Madei). Queste condizioni determinano diversi tipi di Neet: gli autori individuano sette categorie – disillusi, fragili, sabbatici, sacrificati, disorientati, ambiziosi, svincolati – tutti con storie e sfumature diverse. Molto interessante l’affondo sul mondo del lavoro in cui spesso regnano ingiustizia, sfruttamento e irriconoscenza che generano nei più giovani “isolamento e frustrazione, allontanandoli sempre di più dal mondo lavorativo e dalla possibilità di un futuro autonomo e soddisfacente”.


Questa complessità non è colta dagli adulti, soprattutto dai genitori, a causa di un dialogo generazionale fallito o costruito su basi prestazionali. Ed è qui il punto decisivo: noi adulti esplicitiamo  – a parole o anche con i fatti – la nostra disistima per questi ragazzi. Li stiamo convincendo che noi siamo meglio di loro, che i nostri tempi sono meglio di quelli attuali. Invece i nostri giovani sono meglio di noi perché spesso devono sopportare capi isterici, richieste asfissianti nei luoghi di lavoro e una competitività che parte dalla scuola dell’obbligo. I giovani sono meglio di alcune persone che, a quarant’anni, hanno smesso di desiderare, incapaci di rimettersi in gioco, vecchi tromboni capaci solo di affossare. Cadere in quel vuoto creatosi tra “presente e domani” diventa perciò dannatamente facile e drammaticamente attuale.

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