
L’esercitazione militare “US Army Europe and Africa International Tank Challenge” a Grafenwoehr, Germania (foto Ansa)
Frontiere dell'industria bellica
La fantascienza è già tra noi: armi stellari per guerre vecchie e nuove
L’attacco israeliano all’Iran mentre il Vecchio Continente si prepara tra ReArm Europe, tecnologie spaziali e spesa militare record. Ma siamo pronti a combattere o solo a finanziare dei Robocop?
L’attacco israeliano in Iran aggiunge ansia e timore anche in chi spera che la minaccia atomica degli ayatollah finisca per sempre. Per intere generazioni la guerra è stata l’ombra nebulosa del passato, soprattutto in Europa. I baby boomer hanno vissuto momenti di terrore nel 1962 per la crisi dei missili a Cuba, ma è durata meno di due settimane. E’ vero, in Bosnia s’è aperta una porta per l’inferno, però Sarajevo del 1995 non è stata la Sarajevo del 1914. L’America negli anni Sessanta ha bruciato i suoi giovani in Vietnam, eppure solo il cinema oggi li ricorda. Abbiamo costruito armi soprattutto per venderle agli altri. La naia si trova a malapena nei dizionari. Poi lo spettro s’è materializzato e ha indossato l’elmetto.
Tra dieci giorni, martedì 24 giugno, il vertice dell’Alleanza atlantica si riunisce per varare l’aumento della spesa militare: il 3,5 per cento del prodotto lordo più 1,5 per cento in investimenti collegati. Il 2032, scadenza prevista dalla Nato, può essere troppo tardi perché di qui al 2030 Vladimir Putin avrà accumulato di nuovo abbastanza capacità offensiva da poter attaccare un paese occidentale, tanto più se l’Ucraina finirà come la Corea, divisa senza aver raggiunto la pace. Nel frattempo, è cominciato il confronto sulla nuova dottrina di contenimento e dissuasione. Sullo scacchiere europeo torna attuale la guerra di Crimea del 1853 con Inghilterra, Francia, Turchia e Sardegna in campo per fermare l’espansionismo degli zar moscoviti. Ma oggi ci vogliono molte più risorse, non bastano eroiche linee rosse come quelle degli Highlander, né si può lasciare solo agli ucraini la difesa del Vecchio Continente. Il 4 marzo scorso Ursula von der Leyen aveva presentato l’ambizioso piano da 800 miliardi di euro e siccome l’Europa fin dal medioevo è abituata a discutere sulle parole prima che sulle cose, ha suscitato brividi di orrore per quel nome tanto evocatore: Rearm Europe. Eppure è proprio di riarmo che si parla in ogni paese. I tedeschi usano l’aggettivo kriegsüchtig, capace di far guerra. Il nuovo piano pubblicato dalle forze armate britanniche si chiama Defence Readiness, essere pronti alla difesa. L’Italia non ha ancora una definizione che metta d’accordo i neopacifisti di destra, i veteropacifisti di sinistra, gli adepti della realpolitik e i sovranisti divisi tra l’Atlantico e gli Urali. Meno burro più cannoni? La Russia e l’Ucraina sono economie di guerra, la produzione, i consumi, la finanza pubblica e privata sono tutte orientate alla guerra e da esse profondamente trasformate chissà per quanto tempo ancora. L’Europa occidentale sta mettendo in piedi economie ed eserciti preparati alla guerra. Gran Bretagna e Francia in cielo e in mare con la loro forza nucleare, i sottomarini, le portaerei, i super caccia bombardieri; la Germania a terra con i suoi carri armati e l’esercito più forte d’Europa. E poi Polonia, paesi baltici, scandinavi e finlandesi a formare una cortina di fuoco; mentre l’Italia e la Spagna risvegliati dal loro caldo torpore tengono a bada il Mediterraneo. Se abbandonasse certi deliri da Sublime Porta, la Turchia potrebbe giocare un ruolo in medio oriente molto più affidabile degli emiri arabi.
Terre rare e guerre stellari
Nelle maggiori potenze mondiali è in corso un cambio profondo nell’arte della guerra che attraversa gli stessi schieramenti tradizionali. Da un lato sono emersi i signori della tecnologia secondo i quali il potere si basa sul possesso e il controllo dei dati; per gestirli viene creato un immenso sistema integrato che parte dalle materie prime strategiche (nelle quali è la Cina a farla da padrone e anche Donald Trump ha dovuto accettarlo), passa attraverso i grandi data center e arriva oltre l’atmosfera terrestre in quella fascia dalla quale partiranno le informazioni e gli ordigni di distruzione di massa. Sull’altra sponda, i baroni dello spazio vitale s’accapigliano per cambiare i confini. Nella prima schiera ci sono i tecno-guerrieri americani, i Peter Thiel, gli Elon Musk, gli Eric Schmidt, ma accanto a loro seppur sul fronte opposto troviamo anche i nuovi mandarini dell’Esercito popolare di liberazione che Xi Jinping sta selezionando a colpi di purghe. Sono gli artefici della nuova potenza cinese, quelli che hanno costruito l’egemonia sui materiali, sulle batterie, sulle macchine per produrre energia rinnovabile e nucleare; i piccoli reattori dei quali tanto si parla in Italia sono già disponibili in Cina e DeepSeek, l’intelligenza artificiale a basso costo, ha fatto tremare Nvidia e OpenAI. La startup di Liang Wenfeng contro il gigante di Sam Altman, il David asiatico contro il Golia occidentale. Schmidt, ex amministratore delegato di Google dal 2001 al 2011, diventato da tempo consigliere del Pentagono, ha fondato la compagnia White Stork che fabbrica droni ad alto potenziale militare guidati dall’intelligenza artificiale e servono per aiutare l’Ucraina. “Sono uno scienziato dei computer, un uomo d’affari e adesso mercante d’armi autorizzato”, ha scherzato in una conferenza all’Università di Stanford. Israele è l’anello di congiunzione tra la vecchia e la nuova guerra, i soldati che entrano nei tunnel di Gaza per scovare Hamas, l’Iron Dome che intercetta i droni iraniani, gli aerei invisibili e i bunker nelle montagne, l’intelligenza artificiale e l’intelligence delle spie.
Trump, Xi e Putin sono a cavallo tra questi due mondi: il vecchio che vuole conquistare la Groenlandia, Panama, il Canada, riprendere Taiwan, l’Ucraina, il Caucaso e chissà quant’altro; il nuovo a trazione globale, basato su intelligenza artificiale, droni e guerre stellari.
Gli esperti della Nasa sostengono che sia più facile e più efficace far cadere da una stazione spaziale a 400 chilometri sopra la terra una bomba ad alto potenziale, attratta dalla legge di gravità, piuttosto che lanciare missili ipersonici come quelli russi. Lo stesso ritorno sulla Luna dopo mezzo secolo dalla missione di Apollo 17 è legato in parte a questa strategia stellare. L’anno scorso è stato lanciato il primo veicolo commerciale costruito da un’azienda privata, il Peregrine. Il programma Artemis che dovrà riportare sulla Luna l’uomo (con una donna per la prima volta) vede protagonista anche l’Agenzia spaziale europea. L’Italia è stata tra i primi otto paesi ad aderire sia alla costruzione di moduli di servizio per la navicella spaziale Orion sia agli esperimenti scientifici. La Luna non è un’alternativa, semmai una tappa nella futura conquista di Marte appaltata per ora a SpaceX di Elon Musk. Prima che arrivi la Cina: nel 2030 dovrebbe allunare il primo equipaggio per creare una base nel 2035. Niente più scarponi sulle sabbie del deserto o del Mar Nero, niente più soldati Ryan da sbarcare sulle spiagge? Calma e gesso.
Le lacrime e la libertà
La strofa di una vecchia canzone popolare rende perfettamente lo stato d’animo di un’Ucraina prostrata da una guerra che dura dal febbraio 2022 e che, nonostante tutto il gran parlare di tregua, di accordi, di pace persino, “sarà ancora lunga” ammettono alla Nato. “Le lacrime non hanno portato mai a nessuno la libertà”, si cantava negli anni Venti mentre i Rossi e i Bianchi si consumavano tra il 1919 e il 1920 in Galizia e Crimea. Gli ucraini ancora una volta combattono, non piangono soltanto. Hanno celebrato il clamoroso attacco con droni nel cuore della Russia, fino a quattromila chilometri da Kyiv, che ha distrutto con certezza 13 grandi bombardieri e danneggiato molti altri, ma tengono la testa sulle spalle. Putin ha lanciato la terza offensiva d’estate e nonostante abbia portato al massacro un milione di giovani russi tra morti e feriti, continua la sua guerra dispendiosa in vite umane oltre che in costi economici. Una strategia che Carl von Clausewitz avrebbe caldamente sconsigliato.
Per Lenin e poi per l’intera cultura militare sovietica, il trattato “Della guerra” era la Bibbia che ogni soldato avrebbe dovuto portare nello zaino. Russi e ucraini sono stati istruiti con il testo dell’ufficiale sassone che combatté contro Napoleone. A suo avviso la guerra difensiva è destinata a mostrarsi superiore a quella offensiva non solo perché parte da una posizione più protetta, ma perché consente contrattacchi efficaci nel fronte opposto senza doversi lanciare in dispendiose avanzate, senza raggiungere quel “punto culminante dell’attacco”, oltre il quale arriva la ritirata o la trincea. L’Ucraina è il campo di battaglia nel quale si sperimenta la nuova guerra del XXI secolo, altamente tecnologica, anche se il fattore umano resta pur sempre determinante. Il governo Zelensky ha destinato alla Difesa 62,1 miliardi di dollari, pari al 36,7 per cento del pil e al 58,2 per cento della spesa pubblica complessiva, la maggior percentuale al mondo. Ha un bisogno assoluto di armi, munizioni, attrezzature, anche se ormai due terzi dei droni utilizzati vengono prodotti in Ucraina. Ma ci vogliono cacciabombardieri e una contraerea potente, missili a lunga gittata, una copertura elettronica e un sistema di comunicazioni diffuso e affidabile. Gli stessi comandi della Nato che la guerra l’hanno studiata, ma non l’hanno mai fatta su larga scala, stanno analizzando quel terribile laboratorio umano e tecnologico.
Pronti a combattere
Il 2 giugno, mentre i nostri sfilavano su via dei Fori imperiali, il governo di Londra pubblicava un documento di 140 pagine al quale avevano lavorato tre esperti esterni guidati da George Robertson, ex segretario generale della Nato. Si propone non solo una legge chiamata Defense Readiness, ma una vera e propria campagna pubblica per spiegare le minacce che incombono sul paese. E’ un punto chiave non solo nelle isole britanniche, ma ovunque: in questa satolla e pacifica Europa occidentale come negli Stati Uniti, là dove la maggior parte degli abitanti è convinta che il vero pericolo venga non da invasori russi o cinesi, ma dagli “alieni” dell’Africa, del Bangladesh, del medio oriente o dell’America latina. In Italia l’ha detto con brutale chiarezza Matteo Salvini: “La minaccia non arriva da improbabili carri armati russi, ma dagli immigrati clandestini”. In Polonia, sulle rive del Baltico, in Svezia, in Finlandia, la percezione è diversa. Ivan (il russo per antonomasia) fa paura, ma Mohammed non è meno spaventoso. Su che cosa dovrebbero discutere i britannici? L’Economist ha anticipato le linee fondamentali, non c’è un dettagliato ordine di battaglia, questo arriverà con nuovi documenti, tuttavia ci sono proposte precise. Ad esempio, comprare fino a una dozzina di sottomarini nucleari d’attacco Aukus (come il patto tra Usa, Uk e Australia per l’area dell’Indo-Pacifico che Trump vuol rimettere in discussione), più F-35 dotati di armamento atomico, una massiccia produzione di munizioni delle quali gli eserciti europei sono a corto (il governo di Londra ha già stanziato due miliardi per sei nuove fabbriche). Con 225 testate nucleari la Gran Bretagna è una potenza atomica, ma la guerra è sempre più cibernetica e richiede una rete che saldi insieme sensori, armi e comandi; i tentativi fatti finora non hanno dato grandi risultati. Il governo a febbraio ha varato un bilancio che indica come obiettivo il 2,5 per cento del pil nel 2027 (un aumento minimo, appena lo 0,2 per cento), mentre il 3 per cento sarà raggiunto solo nel 2034, con il prossimo parlamento. Insomma nemmeno Londra è pronta a rispettare l’obiettivo della Nato. Il documento guarda con interesse a quel processo di difesa dell’Unione europea che potrebbe essere “un complemento al ruolo della Nato”. Ma emergono anche contraddizioni da risolvere, come l’alleanza di intelligence Five eyes con gli Stati Uniti, dalla quale dipende la difesa britannica. Non solo: spendere miliardi per gli F-35 riduce l’impegno per il jet di sesta generazione che dovrebbe rimpiazzarli, il Global Combat Air Programme con Italia e Giappone.
Per la Francia il deficit pubblico sembra una barriera per ora insuperabile. Il ministro della Difesa Sébastien Lecornu ha chiesto 40 miliardi di euro per quasi raddoppiare il bilancio e portare entro il 2030 la spesa per la difesa al 3,5 per cento del pil. Come fare con un debito sovrano superiore al 110 per cento del pil, che costa al bilancio dello stato più di 50 miliardi di euro all’anno, e un disavanzo superiore al 5 per cento del pil, che sembra impossibile risanare senza rischiare la caduta del governo? L’esercito più grande d’Europa è figlio della Guerra fredda e del retaggio imperial-coloniale, si definisce nazionale e globale, ha rinunciato alla leva obbligatoria nel 1996 ed è a corto di uomini e di mezzi. In Francia molti propongono da tempo che debba specializzarsi in funzione sia delle minacce attuali (doppia deterrenza contro Russia e Cina) sia degli sviluppi tecnologici di questi anni. L’idea di mettere la force de frappe con 290 testate atomiche a disposizione della difesa europea divide la politica e l’opinione pubblica, con Marine Le Pen contraria anche ad aumentare il bilancio militare per “non fare un favore agli Stati Uniti”. Il clima politico transalpino è forse l’ostacolo maggiore sia a risanare le finanze sia a rafforzare l’Armée. Il governo sta coinvolgendo i grandi industriali a cominciare da quelli dove il governo ha una quota rilevante: Emmanuel Macron ha chiesto alla Renault di produrre in Ucraina droni per l’Ucraina là dove stanno già lavorando ben 40 grandi gruppi, dal francese Thales (elettronica) al tedesco Rheinmetall (soprattutto munizioni).
Friedrich Merz si è impegnato personalmente e i due rami del Parlamento hanno approvato la principale novità: le spese militari superiori all’un per cento del pil saranno esenti dal “freno del debito”, cioè la legge costituzionale che impegna al pareggio del bilancio. Sul settimanale Der Spiegel è apparso un redazionale che pubblicizza tre titoli obbligazionari emessi per finanziare la difesa: “Se non li compri oggi, te ne pentirai domani”, è scritto; un invito che sembra una minaccia. L’obiettivo dichiarato è fare della Bundeswehr il più potente esercito convenzionale in Europa, rilanciando il ruolo della Germania come “spina dorsale della Nato”. Berlino è pronta a firmare l’obiettivo del 5 per cento: si tratta nell’insieme di 215 miliardi di euro l’anno per essere kriegsüchtig, pronti alla guerra. Ce n’è bisogno. La Germania oggi possiede 320 carri armati Leopard, ma se si pensa che durante la Guerra fredda era arrivata a cinquemila si capisce che la vittoria sull’Unione sovietica ha avviato un vero e proprio disarmo in Europa. Con appena 215 carri Leclerc la Francia non sta molto meglio dell’Italia che ne possiede 200. L’Ucraina ne ha 800, la maggior parte vecchi e sovietici, la Russia migliaia, non si conosce il numero esatto, si va dai tremila ai 12 mila. Anche Boris Pistorius, ministro della Difesa tedesco, fa appello alle imprese private, per sviluppare un “complesso militar-industriale” guidato dal mercato. La parlamentare verde Sara Nanni membro della commissione difesa del Bundestag, parla di Pistorius come del “miglior ministro che abbiamo avuto da molti anni a questa parte” e certo sta emergendo come una figura politica di riferimento. Ma non è solo questione di quattrini o di carri armati.
Di uomini e macchine
I tedeschi sono davvero pronti alla guerra? Fattori culturali, abitudini, decenni di “pacifismo” per scollarsi di dosso non solo il marchio di Hitler, ma anche quello degli junker prussiani, hanno cambiato lo stato d’animo di intere generazioni, dai baby boomer in poi. Angela Merkel nel 2011 ha abolito la leva obbligatoria ma c’è chi parla di reintrodurla, anche se in forma leggera. Certo è che le forze armate oggi faticano ad arruolare 180 mila uomini, meno dei 200 mila previsti. Secondo gli analisti servirebbero altri 100 mila combattenti di qui al 2029. Un recente sondaggio mostra che mentre una grande maggioranza approva l’aumento della spesa militare e il 50 per cento degli intervistati sostiene che la Germania dovrebbe essere pronta a combattere, solo il 20 per cento ha risposto “sì” alla domanda se si sente personalmente pronto a difendere il proprio paese con le armi e il 54 per cento ha detto onestamente di no. Come risponderebbero se fossero davvero sinceri i francesi e gli italiani? Di ritorno alla leva si discute un po’ ovunque, con poche speranze di trovare una soluzione. Gli eserciti europei sono ormai professionali anche in paesi come la Svezia che hanno mantenuto l’obbligo a un periodico addestramento, soprattutto per i graduati. Il governo di Stoccolma già due anni fa ha aperto le porte ai giovani e ha trovato una disponibilità nient’affatto scontata, ma di qui a tornare ai coscritti ce ne corre. Abile e arruolato non suona bene in nessun angolo dell’occidente europeo. E’ sensazione comune che a combattere debbano essere solo i Robocop, i robot soldati. Ma il fattore umano, dagli alti comandi alla “bassa truppa”, resta determinante.
L’industria italiana della difesa si è messa al centro di una rete di alleanze. Boom in Borsa per Leonardo, ma manca un progetto complessivo
L’industria militare ha avuto un vero e proprio boom dall’invasione dell’Ucraina in poi. In cima ci sono i cinque giganti americani (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, Raytheon, General Dynamics), poi il britannico BAE Systems, tre gruppi cinesi, uno russo (Rostec); l’italiano Leonardo è al quattordicesimo posto (secondo in Europa), seguito da Airbus e dal francese Thales. Per avere un’idea della dimensione, Lockheed fattura attorno ai 60 miliardi di dollari, Leonardo supera i 17 miliardi. I tre eserciti più potenti al mondo restano quello americano con una superiorità assoluta in cielo e mare, seguono Cina e Russia, ma si è fatta strada l’India che ha superato la Corea del sud, poi Regno Unito, Giappone, Turchia, Pakistan, Francia e Italia.
La lezione di Cavour
Tragicamente sepolto il velleitarismo nazionalista del fascismo, l’Italia che “rifiuta la guerra”, ma non disarma, ha messo a frutto la lezione impartita da Cavour durante il conflitto di Crimea: stare con l’occidente, bloccare la Russia, dialogare con la Turchia (Lamberto Dini da ministro degli Esteri si spese anche per il suo ingresso nella Ue). E non tirarsi indietro, si tratti di impiegare un manipolo di assaltatori o i carabinieri nel più remoto angolo del mondo (sono in corso 40 missioni che impiegano in media 7.750 militari e costano circa un miliardo e mezzo di euro). La sfilata del 2 giugno non è solo folklore, offre un colpo d’occhio su come sono strutturate le forze armate italiane, che contano su circa 160.000 uomini. Dei 200 carri armati, ne sono operativi appena 80. E’ in programma di modernizzarli e comprare 122 Leopard tedeschi. Inoltre c’è il progetto di modernizzare 150 Ariete, di dotarsi di 380 carri KF51 e mille veicoli Lynx. E l’accordo tra Leonardo e Rheinmetall dovrebbe sostituire i Lince con nuove macchine. La Marina militare italiana ha due portaerei leggere, la Garibaldi e la Cavour, nell’insieme 52 navi e appena sei sottomarini, due in attesa di dismissione. Per la difesa aerea i principali velivoli sono gli F-35 americani (il prossimo anno dovrebbero arrivare a 115), sia quelli di classe A con capacità anche nucleare, sia quelli per operazioni su portaerei, più il caccia Eurofighter Typhoon, utilizzato per intercettazioni e missioni multiruolo. Alcuni Tornado sono ancora in servizio per missioni di bombardamento e ricognizione. Ma l’Italia è anche un deposito di bombe atomiche americane: sono tra 30 e 40 (la stima è in difetto, secondo alcuni si arriva a un centinaio) in due basi, Aviano e Ghedi, attrezzata quest’ultima per gli F-35 A che possono portare le bombe più moderne B61-12. L’arsenale nucleare è statunitense e può essere utilizzato solo con il via libera della Nato. L’Italia non ha alcuna sovranità (cari sovranisti immaginari) né possibilità di decisione autonoma.
L’industria italiana della difesa si è data da fare mettendosi al centro di una rete di alleanze. Leonardo, controllata per il 30 per cento direttamente dal ministero dell’Economia, è in un quadrilatero con il britannico BAE, il francese Thales e il tedesco Rheinmetall. Il boom in borsa (più 113 per cento in un anno) e la struttura costruita già da Finmeccanica prima con Pier Francesco Guarguaglini poi con Alessandro Profumo hanno dato sostanza e concentrato il gruppo sulla difesa. Il super cacciabombardiere di sesta generazione con inglesi e giapponesi dovrebbe rivaleggiare con l’F-47 americano e superare sia il russo Sukhoi Su-57 (il più potente al mondo, entrato in servizio cinque anni fa), sia l’Eurofighter Typhoon, il più avanzato nella difesa aerea. Dovrebbe entrare in servizio nel 2035. All’Italia non mancano le competenze, manca un progetto complessivo come quello tedesco e britannico.
Chi paga
Abbiamo lasciato per ultimo il vil denaro senza il quale tutto il resto è nulla, non per pregiudizio ideologico, ma per non ridurci al conto della spesa. Economia, tecnologia e fattore umano i tre principali capitoli della nostra storia sono strettamente intrecciati, però chi paga, come e quanto resta lo snodo decisivo. Gli Stati Uniti spendono più di tutti, come abbiamo scritto, ben tre volte la Cina che si trova al terzo posto. I dati sulla Russia sono incerti, anche perché è difficile valutare oggettivamente le perdite (oltre 5 mila carri armati e centinaia di aerei ed elicotteri, con un milione di vittime tra morti e feriti), ma il Cremlino ha messo l’intera economia, dalla banca centrale all’industria, al servizio dell’invasione dell’Ucraina la quale, anche prima dell’invasione spendeva oltre un terzo del proprio prodotto lordo per difendersi dalle mire di Putin rivelate apertamente nel 2014. Israele spende l’8 per cento (quota che salirà con il prolungarsi della guerra per Gaza), tallonato dall’Arabia saudita, la Polonia ha superato il 4 per cento mentre gli Usa e la Cina sono rimasti allo stesso livello. In Europa occidentale solo il Regno Unito e la Francia sono oltre il 2 per cento; l’Italia che è all’1,6 per cento appena, dovrà compiere un vero salto mortale.
Nell’insieme i paesi della Ue spendono ogni anno circa 300 miliardi di euro per la difesa (grosso modo come la Cina e il doppio della Russia anche se mancano gli ultimi dati stimati dal Sipri l’istituto di Stoccolma che fa testo sugli equilibri militari). In testa è già la Germania con 78 miliardi di euro lo scorso anno seguita dal Regno Unito, dall’Ucraina e dalla Francia quasi alla pari. L’Italia con circa 38 miliardi viene poco prima della Polonia; per rispettare l’obiettivo del 5 per cento il governo di Roma deve triplicare la spesa superando i 100 miliardi di euro. Gli Stati Uniti sono attorno ai mille miliardi di dollari. Come trovare gli 800 miliardi di euro per Rearm Europe? Circa 150 miliardi per acquisti coordinati di armamenti verranno da prestiti agevolati ai singoli paesi (il fondo Safe). Il resto è a carico dei bilanci nazionali grazie a un allentamento del patto di stabilità, il corsetto che stringe le finanze pubbliche: le spese militari, infatti, possono essere escluse dal calcolo del deficit. Per raggiungere l’obiettivo potranno essere utilizzati anche i fondi di coesione che dovrebbero andare a investimenti volti a ridurre le diseguaglianze economiche e sociali tra gli stati e le diverse aree della Ue. Il problema non è soltanto la quantità, ma soprattutto la qualità della spesa, buona parte della quale va al “sostentamento della truppa” più che agli armamenti. E’ davvero pronta a questo sforzo l’Europa dell’ultimo uomo, colui che segue il gregge e vive inseguendo i piaceri della vita? Così parlò Zarathustra. E nel secolo scorso combinò un disastro.