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Girotondo

Vietare o no i social ai ragazzini? Idee sul nuovo proibizionismo 

L'Australia ha vietato agli under 14 l'accesso alle principali piattaforme.“Una regola che dà forza ai genitori”. “Lo stato vigila, non s’intromette”. “Una legge non basta”. Girotondo fogliante

Vietarli o no? Giovedì scorso, l’Australia ha fatto una scelta interessante e a suo modo storica: ha approvato una legge, la prima nel mondo, che ha l’obiettivo di vietare alle persone con meno di 16 anni di accedere a tutti i principali social media. Abbiamo organizzato un girotondo per parlarne un po’. Qui trovate le altre opinioni raccolte. 

 

Provaci, Australia. Se funziona ti veniamo dietro

Dopo il mio primo e unico viaggio in Australia ho fatto una cosa incredibile: per sei lunghissimi mesi, al mio ritorno in Italia, sono andato rigorosamente entro i limiti di velocità. Cioè, se nel mezzo di una statale a quattro corsie c’era il cartello di 50 all’ora  andavo a 49, non a 58 perché poi c’è la tolleranza, la taratura dell’autovelox, il ricorso, e “vabbè siamo in Italia, figurati se…”. No, rigoroso rispetto delle regole. Come in Australia. Poi sono tornato italiano, che ci volete fare. 

In Australia ho visto scene tipo un elicottero che passa sul bagnasciuga volando molto basso con una sirena ad alto volume e i bagnanti che escono dall’acqua come dei ragazzi delle medie escono da scuola perché suona la campanella, in ordine, quasi felici. Era un’allerta squalo. In Australia tutto sembra funzionare perfettamente, il rispetto delle regole è conditio sine qua non del vivere laggiù. Il 24 dicembre del 2022 alle ore 16 in un posto abbastanza remoto tra Adelaide e Melbourne (Mount Gambier) ero in auto alla ricerca di un benzinaio, mi imbatto in un posto di blocco senza scampo: fermavano tutte le auto sia in un senso che in un altro, era arrivato il momento del mio primo etilo test, durata dell’operazione 30”, grazie, arrivederci, buon Natale.  E’ in qualche modo una società occidentale “sperimentale”, molto giovane. Ecco, l’Australia è forse la più giovane società occidentale, per questo molto interessante: laggiù le cose devono ancora succedere, banalmente anche per una questione di km pro capite: c’è spazio per tutti, c’è tanto posto. Si apprende in queste ore che l’Australia voglia vietare i social network ai minori di 16 anni.

Non mi stupisco che questo gigantesco stato-continente così moderno, così lontano da noi, ma così vicino a noi per mille motivi, cerchi di mettere qualche paletto “all’australiana”, quindi in maniera drastica, su un tema delicato come quello di minorenni e social media. Si sono scritte miliardi di parole sull’argomento, cosa può aggiungere un presentatore della radio tv italiana a riguardo? Poco o niente. Il padre di una diciannovenne può, eccome. Sono stati anni difficili quelli dei minorenni, particolarmente in pandemia. Il cellulare li ha peggiorati? Migliorati? Potevamo e possiamo proteggerli i nostri figli? Oggettivamente mi pare di no, almeno non noi a casa, che poi “sono l’unico sfigato con i social bloccati”,  oppure “voi siete matti, cosa vuoi che sia, ce l’hanno tutti”. Il provvedimento legislativo in qualche modo fa quello che a casa non siamo oggettivamente in grado di fare, la legge imporrebbe una regola dando forza anche al genitore di poterla far rispettare perché “si fa così”. Non si usano i social prima dei 16 anni così come ci si allacciano le cinture o si indossa il casco o non si guida in stato d’ebbrezza. E allora provaci Australia, poi facci sapere come va che noi volentieri ti veniamo dietro. 
Nicola Savino


 

Proteggere non significa consegnarsi  alla paura del futuro

Per una democrazia liberale l’accesso libero alla rete è parte integrante dei diritti di cittadinanza. Come ogni diritto ha bisogno di un quadro di regole perché la sua piena e consapevole fruizione possa realizzarsi nell’interesse dei singoli e della collettività.  L’uso delle tecnologie e delle loro applicazioni non può quindi non considerare l’urgenza di regole che tutelino i bambini e i preadolescenti nel loro contestuale diritto a uno sviluppo sano e consapevole. Oggi fin dalla prima infanzia c’è un utilizzo crescente degli smartphone e dei device. Questo uso prematuro ha una conseguenza: il peggioramento della salute fisica e mentale dei bambini e dei ragazzi. E’ la tesi avanzata dagli appelli ormai continui di pedagogisti e pediatri in tutto il mondo.

Credo che sia ormai evidente che non possiamo scaricare le “colpe” sui bambini e ragazzi lasciati preda, oggettivamente, di una forza, quella delle piattaforme, violenta, aggressiva e difficilmente padroneggiabile. Né possiamo lasciare sulle spalle dei genitori e degli insegnanti tutta la responsabilità, in totale assenza di un quadro regolatorio assicurato dalle Istituzioni. In questi mesi ho lavorato a una proposta di legge bipartisan. La  proposta, già in discussione in Senato con le prime firmatarie Mennuni (FdI)  e Malpezzi (Pd), è figlia di un lavoro istituzionale condiviso da esponenti  di diversi gruppi politici di maggioranza e opposizione ed è presente nelle conclusioni della prima indagine conoscitiva della commissione bicamerale Infanzia e Adolescenza. Cosa prevede? L’obbligo  in capo alle piattaforme di verificare l’età di chi naviga e sta sui social – che vorremmo portare a un’età minima di 15 anni; la verifica dell’età è anche necessaria per vietare in modo assoluto la profilazione da parte dell’algoritmo dei minorenni, così come già disposto dalla normativa europea. Nessuno si illude: non basta una legge; servono programmi, progetti, iniziative e presidi per una nuova e diffusa “educazione” su questi temi. Serve costruire un percorso di alleanza tra istituzioni, scuola, media, oratori e famiglie. Senza scegliere l’inerzia per l’idea sbagliata che proteggere significhi consegnarsi a una visione di paura del cambiamento e del futuro. Non è così.
Marianna Madia parlamentare del Pd


 

A 16 anni, piccoli per Facebook e già grandi per votare?

A soccorrere il liberale (anche quello moderno) che voglia giustificare – senza rinnegare sé stesso – il ricorso a un nuovo divieto viene sempre John Stuart Mill, secondo cui  l’“unico scopo per cui il potere può essere esercitato legittimamente sulla comunità, contro la volontà di un individuo, è quello di impedire che danneggi gli altri”. Ed è la cronaca a raccontarci che l’abuso, l’uso distorto inconsapevole nelle piattaforme social da parte delle bambine dei bambini, ha creato frequentemente danni a loro stessi e ai loro coetanei. Ma siamo proprio sicuri che il divieto di accesso alle piattaforme (con qualche eccezione, che vedremo) per gli under 16 approvato dall’Australia  e che qualcuno vorrebbe “importare” anche in Italia sia adeguato per risolvere le storture, veramente applicabile e – anche dal punto di vista morale, oscurantista – l’unica soluzione possibile? Certo, erano belli i tempi della via Gluck quando i bambini giocavano a pallone nei campi a Milano, ma le piattaforme hanno cambiato il modo di informarsi e anche di imparare, consentito di confrontarsi con lingue, culture e realtà molto diverse, reso i nostri figli molto più consapevoli.

Al punto che molti stati europei – e se ne discute anche in Italia – riconoscono ai sedicenni, cioè l’età cui si vorrebbe estendere il divieto a iscriversi a un social, il massimo riconoscimento di maturità e consapevolezza, cioè il diritto di voto. Questi sedicenni sono così immaturi da non potersi aprire un profilo Facebook o così “grandi” da poter scegliere da chi essere governati? Secondo tema: già oggi, anche se nessuno lo sa, vige il divieto per gli under 13. La nuova legge, dunque, alza questo limite di soli tre anni. Chi se n’è accorto? Nessuno, perché anche il divieto è sulla carta, viene sistematicamente aggirato e anche senza fatica: l’age verification, cioè il controllo dell’età, che tutte le piattaforme eseguono in forza della legge, è una banale autocertificazione. Non è ancora stato individuato – nonostante investimenti miliardari – un sistema che tuteli privacy (cioè non chieda alle piattaforme di verificare documenti, trattenendone i dati) e verità. Tanto è vero che TikTok dice di cancellare una media di sei milioni di account di under 13 ogni mese.

Poi c’è il tema delle vpn: aggirare il divieto imposto da un singolo stato è appunto un gioco… da ragazzi, come sa bene chi è stato in Cina – dove sono vietati i social per tutti – o aveva curiosità di interrogare ChatGpt nel – breve – periodo dell’oscuramento. Infine: siamo proprio sicuri che vietare – come succede per le droghe leggere ma non solo, come cantava Piero Pelù prima dell’incidente con le matite copiative,  coi Litfiba, nel 1991 – non aggiunga un’aurea di “proibito” e dunque di desiderabilità a una banale iscrizione alla piattaforma dove ci sono anche la nonna e due balletti per teenager? Ultimo argomento: se lo scopo è disconnettere i ragazzi – e ci sta – chiuderli a ogni possibile pericolo e influenza esterna, anche commerciale, allora la legge australiana avrebbe dovuto impedire loro di avere un telefono o un telefono chiuso, senza app o messaggistica. Così, però, non è stato: le nuove norme del paese dei canguri consentono loro di utilizzare Whatsapp e YouTube, che non sono meno pericolosi – rispettivamente – in tema di contatto da parte di estranei e di influenze e annunci commerciali. Il divieto di iscrizione per gli under 16  non tiene conto delle evoluzioni del settore e delle ultime sensibilità, non – o non solo – dettate da imposizioni, ma anche – paradossalmente – dall’esigenza commerciale di avere una buona “brand reputation”, evitando scandali e casi di cronaca.

Quasi tutte le piattaforme  prevedono già oggi un sistema  che crea delle “bolle” per i più giovani: limiti nella pubblicazione, divieto di video live e  pubblicità personalizzata, impossibilità di essere contattati da estranei. Il parental control è già obbligatorio, ma i genitori devono saperlo attivare. Perché poi, alla fine, è ancora una volta una questione di informazione e di educazione, compresa quella per i  genitori. Piuttosto che il divieto totale – per qualche tempo – dunque, nell’anno domini 2024, sarebbe forse meglio sedersi attorno a un tavolo con tutti gli operatori – che hanno molte risorse – e lavorare insieme  a codici di autoregolamentazione più stringenti, proseguire la strada della tutela “da dentro”. Lo stato vigila, non si intromette. L’unico compito che spetta chiaramente alle istituzioni è quello – importantissimo, come abbiamo visto, da cui discende tutto il resto – di risolvere la questione della verifica dell’età: lo strumento potrebbe essere il wallet. 
Paolo Emilio Russo Forza Italia, capogruppo  in commissione Affari costituzionali


 

Occorre ripartire da un nuovo alfabeto emotivo

“Papà, quando potrò avere anche io il cellulare?”. Quando un paio di giorni fa, mia figlia di dieci anni mi ha fatto questa domanda, le ho risposto in modo evasivo: “Non c’è nessuna fretta: non sarai la prima della tua classe e non sarai l’ultima”. La legge approvata dal Parlamento australiano che vieta ai ragazzi con meno di 16 anni di accedere a tutti i principali social media, mi pone però di fronte a un interrogativo nuovo: non sarà un’illusione rifugiarsi nella zona di comfort delimitata dalla logica binaria del giusto-sbagliato? Potevo dare a mia figlia una risposta più adeguata? Io sono cresciuto in un mondo in cui i social non c’erano, e da padre ho paura di ciò che i social potranno fare alla testa di mia figlia (dopo aver letto “La generazione ansiosa” di Haidt, ancor di più).

Ma vietare è davvero la soluzione migliore per la tutela dei nostri figli? La storia insegna: le restrizioni hanno generato effetti collaterali e comportamenti distorsivi legati proprio alla volontà dell’uomo di non limitare la propria autodeterminazione. I social network hanno amplificato questo fenomeno dato che la loro dimensione sociale e relazionale è di fatto una sommatoria di individualità caratterizzate sempre più spesso dalla ricerca dell’estremo. Sui social, si sa, vogliamo tutti apparire belli, intelligenti e performanti. Al contempo, la legittimità di interventi che possono limitare l’accesso ai social risiede proprio nella necessità di arginare questa tendenza. L’eccessiva individualizzazione, “il mito di sé” insomma, è anche veicolo di violenza e prevaricazione. Ecco, io credo che un giusto equilibrio debba guardare all’educazione ai sentimenti. Occorre ripartire da un alfabeto che possa aiutare a decifrare la complessità della vita emotiva, migliorando così la capacità di leggere le proprie emozioni e, di conseguenza, la qualità delle relazioni con gli altri. Solo con l’intelligenza emotiva, che è complemento irrinunciabile dello sviluppo cognitivo, i nostri figli diventeranno adulti capaci di fare scelte di vita consapevoli. Anche sui social. Forse a mia figlia devo un’altra risposta.
Federico Freni deputato della Lega

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