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Dating app

No, cari single: Tinder non ha alcun interesse a farvi trovare il vero amore

Antonio Gurrado

L'infinito catalogo di potenziali candidati delle dating app infonde negli utenti l’idea che nessuno possa essere all’altezza del successivo, e che quindi accontentarsi possa far perdere occasioni migliori. Insomma è solo una questione di business

È la superstizione del piccione. La trovate su Wikipedia: nel 1948, lo psicologo Burrhus Skinner chiuse un piccione in una gabbia collegata a un timer. Quando il timer scadeva, il piccione riceveva del becchime; essendo però completamente ignaro del timer, si convinceva che l’arrivo del cibo dipendesse da un movimento che aveva compiuto a caso prima della somministrazione. Ragion per cui continuava a ripetere compulsivamente quel movimento, aspettandosi che gli arrivasse del becchime; che, il più delle volte, non gli arrivava.


Tinder, Match e le altre più o meno celebri app di dating funzionano secondo questo esperimento. Lo ha ammesso lo stesso Jonathan Badeen, inventore del meccanismo dello swiping: se su Tinder vediamo una faccia che ci piace, col pollice la trasciniamo verso destra; se ne vediamo una che non ci convince, swipe a sinistra e avanti la prossima. Se non che, proprio il giorno di San Valentino, in California è stata intentata una class action contro queste app, accusate di indurre negli utenti un comportamento compulsivo, causa di dipendenza. In sostanza, le app promettono all’utente di trovare il vero amore scegliendo fra un catalogo infinito di potenziali candidati; ma proprio l’infinità del catalogo insuffla l’idea che nessun potenziale candidato possa essere all’altezza del successivo, e che quindi accontentarsi possa far perdere occasioni migliori. Così il vero amore non si trova mai e ci si consegna a una scommessa senza fine. Esperti di legge e di psicologia storcono il naso di fronte all’ammissibilità della class action; vedremo. È tuttavia rilevante notare che si appunta proprio sul paradosso intrinseco a queste app. Tinder e compagnia sono fatte per essere disinstallate: in teoria il loro utilizzo è finalizzato a raggiungere il momento in cui, espletato il loro compito, non serviranno più. In pratica, invece, come tutte le app mirano a continuare a essere usate (l’app che ti consegna vino a casa non vuole renderti alcolizzato, ma solo farti arrivare del vino tutte le volte che ti serve), e sta all’utente stabilire quando e se fermarsi.


Lee McKinnon, specialista di Scienze del comportamento, ha spiegato al Guardian che la gamification degli appuntamenti invale nella vita reale indipendentemente dall’utilizzo delle app. È vero. Un paio d’anni da single è stato sufficiente a dimostrarmi che i pretendenti a un partner si dividono in sedevacantisti e cercatori di petrolio. I sedevacantisti ritengono necessario stare con qualcuno, quindi stilano (alcuni inconsapevolmente) una classifica in cima a cui collocano il meno peggio, pronti a sostituirlo non appena si presenta qualcuno con migliori requisiti. I cercatori di petrolio lanciano il cappello a casaccio, iniziano a scavare e poi, appena vedono le prime gocce nere, vengono assaliti dal dubbio che lo zampillo sarebbe stato più intenso se il cappello fosse caduto altrove: quindi lo lanciano da un’altra parte e ricominciano da capo, per sempre. Le app si limitano ad accelerare e moltiplicare questi meccanismi.


Dietro la class action, ma anche dietro tutta la retorica romantica, si nasconde infatti un’ipocrisia di base. E’ ovvio e inevitabile che qualsiasi scelta individuale in materia di sentimenti sia finalizzata al miglioramento del proprio status, o quanto meno alla gratificazione. Lo stesso egoismo, ci mancherebbe, è il motore del funzionamento delle app nonché la loro ragion d’essere. Al Washington Post, la psicologa Jo Hemmings ha fatto pragmaticamente notare che qualsiasi app, di dating o meno, è un business. Pertanto la gamification, lo swiping e tutto l’armamentario di trucchetti che inducono al loro utilizzo compulsivo servono solo e soltanto a far soldi. Questa, dunque, potrebbe essere la soluzione. Anziché perder mezze giornate sulle app di dating – mediamente dieci ore a settimana, dicono le statistiche – lavorate sfruttando quel tempo per farvi venire un’idea geniale e fatturare. Magari diventate ricchissimi; a quel punto sì che lo trovate, il vero amore.
 

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