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Dietro le sbarre

Il vero nodo da sciogliere sul dramma delle carceri italiane è culturale

Davide Damiano

Di fronte al tredicesimo suicidio in carcere da inizio anno, è impossibile restare in silenzio. Nel paese oggi si fa strada un manicheismo che non sa o non vuole vedere la realtà

Di fronte al tredicesimo suicidio in carcere da inizio anno, è impossibile restare in silenzio. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Suicidi, pestaggi, sovraffollamento, condizioni igieniche disastrose: che direbbe Voltaire del sistema penitenziario italiano? Solo una persistente indifferenza ci salva dalle domande che la cronaca, con regolarità, ci ripropone: come trattiamo chi ha compiuto degli errori? Come li aiutiamo a prendere coscienza del danno che hanno recato a loro stessi e alla società? Cosa possiamo fare per questi “ultimi”, oltre a infliggere loro una giusta pena, che possa aprire la strada a un percorso di recupero? La risposta non può essere un semplice atto volontaristico, una questione per “uomini di buona volontà”: è un dovere costituzionale (articolo 27): “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tranne rare eccezioni il nostro sistema carcerario si fonda sulla logica della punizione, ed è questo il più grande ostacolo al reinserimento socio-educativo della persona. Di fatto l’ingresso in carcere sancisce una garanzia di recidiva del 68 per cento. Un dato che da solo esprime il giudizio sull’efficacia del sistema.
 

Dei 56.700 detenuti a dicembre 2022 il 31,2 per cento ha tra i 18 e i 35 anni, il 40,6 non ha assolto l’obbligo scolastico. Ogni 100 carcerati ci sono: 1 laureato, 4 diplomati (maturità), 39 con licenza media e 4 con un diploma professionale. I numeri parlano: basso livello di scolarizzazione, alta possibilità di commettere reati.
 

Il panorama dell’inserimento lavorativo è desolante: oggi i detenuti che lavorano sono 19.817, di cui l’87 per cento alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e solo il 12,21 per cento occupato presso realtà private (cooperative sociali, aziende, associazioni…). Lavorare per l’amministrazione ha i suoi vantaggi, ma espone a un rischio quasi certo: le opportunità di continuare a lavorare una volta saldato il debito con la giustizia sono pressoché inesistenti.  In Lombardia, dove vivo e lavoro, i detenuti lavoratori sono 3.020, di cui 673 nel settore privato (il 22 per cento, un po' sopra la media nazionale). In molte carceri vengono proposti percorsi di formazione professionale, allo scopo di trasferire competenze tecniche che, terminato il periodo di detenzione, possano tornare utili alle persone che li hanno intrapresi.
 

Il vero nodo da sciogliere, tuttavia, è culturale: agli occhi della maggioranza dei cittadini il detenuto è raccontato e identificato con l’errore che ha commesso, senza via di scampo. Un manicheismo che non sa, o non vuole vedere, che dietro ogni decisione ed errore si annidano fattori da conoscere e approfondire per capire quali siano le condizioni che permettono a una persona di elaborare uno spirito critico, di allenare la coscienza, e di compiere scelte che non ledano il bene proprio e il bene comune.
 

Occorre attuare le best practice di quegli istituti che hanno avuto possibilità e vision. Cito per esperienza diretta il carcere di Bollate, costruito per permettere alle aziende di portare lavoro all’interno. Oppure il carcere di Opera che con il progetto Università in carcere fa studiare i detenuti. O il carcere di Busto Arsizio che ospita una produzione di prodotti dolciari per celiaci di livello internazionale. Gli strumenti ci sono, il Pnrr prevede piani per la ristrutturazione delle carceri. Bisogna aumentare gli spazi produttivi e invogliare il privato, cooperative sociali e imprese, a farsi protagonista di una scommessa che non può più tardare: costruire luoghi che siano concepiti per il reinserimento, tramite educazione, lavoro e cura.
 

Le parti politiche non possono, non devono, strumentalizzare a proprio piacimento quanto nelle carceri continua drammaticamente ad accadere. La politica ha il compito di conoscere, sostenere e integrare nei modelli che propone le esperienze virtuose che mettono al centro la persona nella sua integrità e irriducibile unicità. Esperienze che fortunatamente non mancano.
 

È ora che lo stato riconosca e fornisca ai direttori, alla polizia penitenziaria, agli educatori, agli assistenti sociali, agli psicologi, agli psichiatri, agli impiegati di ogni carcere gli strumenti per svolgere il proprio lavoro nell’interesse della comunità, mettendo in pratica gli articoli 1 e 27 della Costituzione.
 

Davide Damiano è presidente Cooperativa sociale Pandora

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