Marzo 1951, zio Gino accompagna la futura signora Fortin (ragazza italiana che sta per sposare un soldato americano) al suo matrimonio (David Lees/Getty) 

Anatomia di una caduta

Il matrimonio, dall'altare alla polvere. Oggi regge solo quello civile

Roberto Volpi

La svolta alla metà degli anni Settanta, con il referendum sul divorzio che assesta due colpi formidabili, al conformismo di massa e al maschilismo, e con il nuovo diritto di famiglia

"Anatomia di una caduta" è il titolo di un gran bel film dell’appena trascorso 2023 sul mistero di una caduta, con tanto di morte al seguito, dal balcone di uno chalet sulle Alpi, in un paesaggio bianco di neve all’altezza di quel che ci si aspetta dalle Alpi, del padrone di casa, scrittore in crisi creativa e marito di una scrittrice molto più brava e psicologicamente molto meno incasinata di lui. Nella caduta del matrimonio c’è forse un analogo fondo di mistero? Se c’è, ecco, allora sono date e alcuni particolari, dettagli parrebbe, a risolverlo. Le date nella cronaca di una caduta come quella del matrimonio in Italia non sono semplicemente importanti. Sono tutto o quasi. E cominciamo allora subito dalla prima, quella del primo dicembre del 1970, quando il Parlamento italiano approva definitivamente la “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, insomma il divorzio. È quella la data di partenza della caduta del matrimonio in Italia? La data che istituisce il divorzio in Italia? Se come nel film “Anatomia di una caduta” dovessimo addentrarci in una analoga ricostruzione alla ricerca di un colpevole della caduta del matrimonio, il divorzio c’entrerebbe eccome, è fuori discussione, eppure non con quella immediatezza, quella sorta di automatismo, e quella esclusività che si è portati a credere.
  

Siamo precipitati dalle altezze di 400 mila e passa matrimoni religiosi negli anni Sessanta alle depressioni degli appena 80 mila di oggi

   

Ma cediamo la parola, per chiarire questo punto, a una breve serie storica del numero dei matrimoni. Che furono 404 mila nel 1971, anno primo dall’introduzione del divorzio, addirittura 8 mila in più di quelli del 1970, che si erano fermati sotto la soglia dei 400 mila. Nel 1972, anno secondo dall’introduzione del divorzio, altro aumento del numero dei matrimoni: 419 mila, addirittura 25 mila matrimoni in più del 1970. Stesso numero di matrimoni, pressappoco, anche nel 1973. Nel 1974 ecco la prima contrazione: 403 mila; ma siamo pur sempre di 7 mila matrimoni oltre la soglia del 1970. Insomma dopo quattro anni pieni dall’introduzione del divorzio nel nostro paese (1971, 1972, 1973 e 1974) i matrimoni non hanno subito alcun cedimento. Che caduta è mai questa, dunque? In effetti trattasi di una caduta trattenuta, potremmo dire. È come se una mano o qualcosa di altrettanto efficace e al tempo stesso esoterico, trattenesse il matrimonio dal cadere, che lo tenesse sospeso in attesa degli eventi. Di altri eventi che si preparano, dopo quello del divorzio.
 

Una mano, per dire qualcosa di indeterminato, che a stare ai dati del 1975 viene però meno perché in quell’anno i matrimoni precipitano da più di 403 a 374 mila, perdendo quasi 30 mila unità in un colpo solo, in un solo anno. Eccolo, allora, il vero inizio della caduta: il 1975. E cosa è successo di tanto particolare nel 1975 da essere costato la bellezza di quasi 30 mila matrimoni in meno? Il punto è che il 1975 ha un antefatto nel 1974, anno al quale bisogna rifarci, la vera data che scatenerà il patatrac del 1975. Ed ecco dunque la seconda data capitale, nella caduta del matrimonio, dopo quella del 1970: il 1974. Data della celebrazione del referendum per abrogare il divorzio, con la vittoria dei NO all’abrogazione straordinariamente rappresentata da Forattini con un tappo di champagne delle fattezze di Fanfani che schizza fuori dalla bottiglia a velocità supersonica liberando la società italiana dalla costrizione del matrimonio per sempre. È da quella sonora sconfitta per 60 a 40 del tentativo di abrogare il divorzio che il matrimonio italiano non si è più ripreso. Il 1975, anno primo dopo il referendum è anche il primo, esso sì, di una lunga, inarrestabile caduta. Il tappo di Forattini individuava, a partire dalle dimensioni, il risoluto, logorroico promotore del referendum: Amintore Fanfani, capo della Dc. Mai calcolo politico e insieme culturale fu, pur condito dalla sua toscanaccia prosopopea, più sbagliato del suo. Fu con il referendum, che trasse il divorzio da una posizione discreta e tutto sommato defilata per portarlo sul proscenio a prendersi gli applausi, che gli italiani assestarono, e dimostrarono chiaramente di volerlo fare, due colpi formidabili: il primo al conformismo di massa che circondava il matrimonio religioso; il secondo al maschilismo che prima ancora che dominare appariva dominante nelle famiglie italiane, dove il potere delle donne agiva di nascosto, all’ombra, appunto, degli allora capifamiglia. Vediamo meglio.
  

Anche tutti o quasi i comunisti, che  in maggioranza non erano cattolici, men che meno cattolici osservanti, si sposavano in chiesa, davanti al prete

   

Ancora nei primi anni Settanta si aveva in Italia questa curiosa situazione: (a) un altissimo indice di nuzialità; (b) matrimoni celebrati quasi al gran completo con rito religioso (fino a 98 matrimoni su 100); (c) la presenza del più forte partito comunista dell’occidente, che poteva contare addirittura su due milioni e passa di tesserati. Il conto è presto fatto: anche tutti o quasi i comunisti, che pure in maggioranza non erano cattolici, meno che meno cattolici osservanti, si sposavano in chiesa, davanti al prete. Si doveva nuotare nel popolo, esserne parte a tutti gli effetti, raccomandava il Pci: e dunque matrimoni religiosi anche se in chiesa non si era mai entrati e mai si sarebbe più entrati. Il referendum con la sua ventata di laicità spazza via questa forma, acuta quanto strumentale, di conformismo.
     

Matrimonio autunnale a New Ulm, Minnesota 1975 (Hum Images/Universal Images Group via Getty Images) 

   

Ma il referendum convince altresì le donne, che ne saranno protagoniste, che il divorzio è un’arma ben carica che si ritrovano in mano e che può essere usata per riequilibrare gli assetti diciamo pure del potere tra uomo e donna, tra moglie e marito, nell’ambito famigliare. Non certo per caso le istanze di separazione vengono, segnatamente i primi anni dopo l’introduzione del divorzio, più dalle donne che dagli uomini – come pure si dava per scontato che sarebbe stato. Sono le mogli, ben più dei mariti, che possono e vogliono liberarsi di legami sentiti come gioghi, subìti più che costruiti con il loro contributo. Ed ecco allora se proprio si cerca la completezza la terza data significativa per capire quel che succede al matrimonio italiano: giusto il 1975. Quel 1975 che vedrà la nascita, conseguente ai sommovimenti della società italiana, del nuovo diritto di famiglia che sanziona la parità dei coniugi a tutti gli effetti, e in particolare davanti ai figli e nella loro educazione. Se proprio si cerca la completezza, dicevo, perché il nuovo diritto di famiglia non spinge a meno matrimoni ma completa il quadro della rivoluzione famigliare venutasi a determinare nel primo quinquennio degli anni Settanta: il matrimonio può essere sciolto anche per volontà di uno solo dei coniugi; il matrimonio religioso, che ha dominato la scena, esce fortemente ridimensionato non soltanto dal divorzio ma da un referendum nel quale la Chiesa non è riuscita a frapporre una distanza tra sé e l’oltranzismo di quanti volevano una famiglia immutabile nel tempo; il maschilismo che impronta la famiglia subisce il primo uppercut dal binomio divorzio – nuovo diritto di famiglia che se proprio non lo spedisce al tappeto di certo lo indebolisce fortemente e lo rende esposto a ulteriori, inevitabili colpi.
 

Ed ecco allora il punto: una congiunzione tutt’altro che astrale, umanissima anzi, di tre date di questa rilevanza nello stretto giro di un quinquennio – 1970 divorzio; 1974 referendum; 1975 nuovo diritto di famiglia – non è riscontrabile nell’universo mondo; ed è la stessa congiunzione che spiega se non tutto molto non solo della caduta del matrimonio ma in modo particolarissimo dell’autentico tonfo del matrimonio religioso. A proposito del quale un interrogativo s’impone a chi intenda appuntare la lente d’ingrandimento della sua investigazione proprio – com’è del resto inevitabile considerando ch’è il matrimonio religioso a subire il contraccolpo più devastante dall’innovazione legislativa e culturale del quinquennio 1970-1975 – su un tale matrimonio: perché lungi dal recuperare il terreno perduto in quel quinquennio il matrimonio religioso non ha fatto che perdere altro terreno fino a precipitare dalle altezze di 400 mila e passa matrimoni religiosi negli anni Sessanta alle depressioni degli appena 80 mila di oggi?
 

Per capire il tracollo del matrimonio religioso non bastano però le date, occorre anche interpretare certi dettagli a tutta prima secondari, particolari che sembrerebbero di poco conto e che invece non lo sono. L’anatomia della caduta del matrimonio religioso, in cui si compendia anche sotto il profilo numerico la caduta del matrimonio tout court, parte dagli eventi impressi nelle date indelebili appena ricordate, è vero, ma senza l’ausilio di quei dettagli, di quei particolari la sua ricostruzione resta monca. Due di questi sono a parere di chi scrive più illuminanti degli altri. Il regime patrimoniale del matrimonio è il primo; la stagionalità del matrimonio il secondo. 
  

Tre coppie su quattro per la separazione dei beni. Ovvero, il matrimonio già all’atto della sua nascita mette un piede nella sua conclusione

   

Cominciamo dal regime patrimoniale del matrimonio, che si biforca in due possibilità: regime di comunione e regime di separazione dei beni. Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 in mancanza di una diversa espressione di volontà degli sposi si instaura automaticamente, con il matrimonio, il regime patrimoniale della comunione dei beni. Con la separazione dei beni, invece, ciascun coniuge conserva la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio. Insomma,  se non c’è un pronunciamento per la separazione, la legge instaura automaticamente il regime di comunione dei beni tra i coniugi. Operazione, questa, del tutto conseguente allo spirito del matrimonio, del resto. Se non c’è comunione dei beni acquistati dai coniugi durante la vita matrimoniale dove mai può riscontrarsi la comunione dei beni? Interrogativo arrischiato perché una cosa l’abbiamo imparata, in questi anni: che se c’è un posto dove la comunione dei beni si ritrae nel proprio guscio come una lumaca o una tartaruga, che si guardano bene dal tirar fuori la testa per il timore di vedersela mozzare, bene questo posto è il matrimonio. Ad oggi appena una coppia su quattro di quante si sposano lo fa con la comunione dei beni. Il che vuol dire che tre coppie su quattro decidono all’atto di sposarsi che quel che acquisteranno nella vita in comune non sarà in comune affatto, sarà rigorosamente dell’uno o dell’altro/a. Ecco quel che si dice mettere le cose in chiaro, da subito, in quel matrimonio che nel caso gli sposi restassero in silenzio assegnerebbe loro in modo automatico la comunione dei beni. 
 

Taglio della torta al ricevimento di nozze ca. 1935. (HUM Images/Universal Images Group via Getty Images) 
   

Ma è proprio in vista della separazione, separazione conseguente a un matrimonio sentito sempre come a rischio di scioglimento, pronta a tracimare senza ripensamenti, e senza che per i ripensamenti ci siano più neppure i tempi nel divorzio cosiddetto “breve”, che già all’atto del fatidico Sì, si provvede a separare i beni. Per semplificare matrimonio, vita in comune e soprattutto fine della vita in comune. Trattasi di calcolo sì utilitaristico, ma ancor prima realistico. Visto l’alto rischio di divorzio, a che pro’ complicarsi la vita? Per pagare parcelle più salate agli avvocati divorzisti? Non c’è logica. Logica vuole, semmai, che già all’atto del matrimonio si metta un piede o almeno la punta del piede nella separazione. Il matrimonio già all’atto della sua nascita mette un piede nella sua conclusione.
 

Trattasi di dettaglio, per carità, ma dettaglio che mette a nudo lo spirito, se non proprio morto certo ammalato, del matrimonio. Si comincia una vita in comune con una sorprendente separazione: quel che compri tu è tuo, quel che compro io è mio. Ma nel sorprendente c’è del più sorprendente ancora. Piccoli elementi che non ti aspetteresti e che tracciano del matrimonio un quadro picassiano dove non si capisce più niente: un occhio solo nella faccia con un naso che, affilato, ne deborda. La comunione dei beni è letteralmente sparita in tutto il Mezzogiorno nell’arco degli ultimi vent’anni, scendendo da oltre il 50 per certo, più di un matrimonio su due, al 20 per cento, appena un matrimonio su cinque all’insegna della comunione dei beni. E questo mentre al nord si è passati dal 37 al 30 per cento della comunione dei beni, una contrazione, per carità, ma debole, accettabile. E invece una frana nel Mezzogiorno. E fu così che se vent’anni fa c’erano molte più separazioni dei beni al nord rispetto al Mezzogiorno oggi la situazione s’è rovesciata come il classico calzino. 
 

Una cosa analoga, pur se di minori proporzioni è successa, si pensi, agli sposi distinti secondo il titolo di studio: che negli ultimi vent’anni il regime della separazione è cresciuto assai di più tra gli sposi con titoli di studio fino alla licenza media inferiore e assai di meno tra gli sposi con titoli di studio universitari. È come se, vediamo di semplificare, senz’altro abborracciando, ma provando se non altro a mettere un segno nel guazzabuglio picassiano, la pulsione separazionista di fronte ai beni del matrimonio si fosse impadronita di chi nella scala dei redditi sta più in basso, mentre è andata più o meno esaurendosi tra quanti nella scala dei redditi stanno più in alto. Si guardi, per capirci, alla graduatoria delle regioni secondo i punti percentuali persi dalla comunione dei beni tra il 2004 e il 2021. In questa graduatoria la comunione dei beni è precipitata dal 52 al 17 per cento in Calabria, la prima della fila, dal 54 al 19 per cento in Campania e dal 52 al 19 per cento in Sicilia, rispettivamente seconda e terza. Di tre coppie che neppure venti anni fa in queste regioni sceglievano la comunione dei beni oggi non ne rimane che una, le altre due sono passate armi e bagagli nel campo della separazione dei beni. In fondo a questa così particolare graduatoria troviamo la Lombardia, il Trentino e l’Emilia Romagna dove la comunione dei beni tiene discretamente, passando complessivamente da poco più del 40 a circa il 35 per cento di oggi. Da una parte le regioni con il reddito ad personam e famigliare più basso, dall’altra quelle con il reddito ad personam e famigliare più alto: nelle prime è il trionfo della separazione, nelle seconde la comunione dei beni tiene assestandosi a un livello ch’è oggi il doppio di quello delle regioni col reddito più basso
   

Nelle tre regioni del Mezzogiorno regine della separazione dei beni il matrimonio è quasi sempre in chiesa. La stagionalità delle nozze religiose

   

Ma c’è di più – ed ecco che arriviamo infine al nocciolo del matrimonio religioso. C’è che nelle tre regioni del Mezzogiorno regine della separazione dei beni il matrimonio è quasi sempre in chiesa, mentre nelle tre regioni dove la comunione dei beni resiste meglio il matrimonio è a grande maggioranza civile. E così scopriamo che quanti varcano la soglia delle chiese per andarsi a sposare essendo quasi al gran completo celibi e nubili al primo matrimonio già lo fanno intanto separando i beni, per il resto si vedrà. Ma come, in Calabria dove il 74 per cento dei matrimoni è con rito religioso praticamente nessuno sceglie la comunione dei beni mentre nel Trentino Alto Adige dove appena il 27 per cento di quanti si sposano lo fa davanti al prete ancora in 4 coppie di sposi su 10 prevale la comunione dei beni? Proprio così. Ok, si può capire che, in linea generale, si scelga la separazione dei beni per semplificare pratiche e iter del divorzio semmai dovesse arrivare e ben sapendo che la probabilità che arrivi è tutt’altro che marginale. Ma perché un di più di separazione dei beni in quanti si sposano in chiesa rispetto a quelli che si sposano davanti all’ufficiale di stato civile? Non dovrebbe forse essere esattamente il contrario?
 

In termini diciamo così immediati ciò succede perché il rischio di divorzio è più alto in una coppia giovane al primo matrimonio con tutta la vita davanti che si sposa in chiesa che non in una coppia al secondo matrimonio che più giovane non è e che si sposa civilmente. In termini più di fondo perché a perdere l’aura del matrimonio – che non è soltanto il senso o il valore, ma proprio la sua essenza intima e più profonda e si dica pure più spirituale – è stato paradossalmente, dal momento che aveva più anima da perdere, il matrimonio religioso più di quello civile.
 

Per capire più a fondo questo elemento della perdita dell’aura, ovvero dell’anima, del matrimonio religioso occorre portarsi con l’indagine nel secondo dettaglio che abbiamo preso in considerazione, a tutta prima perfino di minor conto di quello della separazione/comunione dei beni: la stagionalità del matrimonio religioso rispetto a quella del matrimonio civile. Ci può davvero suggerire qualcosa il mese in cui ci si sposa? Può metterci sulla strada giusta per trovare il tassello mancante alla ricomposizione del puzzle della caduta del matrimonio – nella fattispecie di quello religioso che, peraltro, porta sulle sue spalle il peso della caduta del matrimonio nella sua interezza? Senz’altro.
 

Nel 2021, ultimi dati a disposizione, il 67 per cento dei matrimoni con rito religioso si sono celebrati nei tre mesi di luglio, agosto e settembre. La concentrazione del matrimonio religioso nei mesi estivi segue una traiettoria crescente nel tempo, ancor più evidente se si pensa che nei cinque mesi da gennaio a maggio più i due mesi di novembre e dicembre, e dunque nel complesso di questi sette mesi, non si sono celebrati che il 9 per cento dei matrimoni religiosi del 2021. Percentuali ben diverse nei matrimoni civili, dei quali il 41 per cento si celebra nel trimestre luglio-settembre e ben il 36 per cento (in proporzione quattro volte di più che nei matrimoni religiosi) nei sette mesi di gennaio-maggio più quelli di novembre-dicembre.
 

Dati eloquenti. Il matrimonio religioso è normalmente, a differenza di quello civile, un matrimonio tra celibi e nubili al primo matrimonio e di età media più contenuta rispetto agli sposi col rito civile – tra i quali quasi 4 su 10 sono al secondo matrimonio, essendo vedovi o divorziati. Tra i giovani sposi in particolare il matrimonio è diventato coreografico, in certo senso pure affaristico e prepotentemente vacanziero: una cerimonia che avvicina sfilate di moda tra eleganti e smargiasse, con pranzi nuziali dove le portate si susseguono insopportabilmente fino allo spuntare delle stelle in cielo, preceduta dalla diffusione tra gli invitati di tanto di conto corrente (variante moderna della lista di nozze) dove gli stessi, e segnatamente i testimoni, avranno già versato un importo, stabilito  da usi e costumi del posto, ma sempre ingente, che contribuisce alla sfolgorante sparizione degli sposi verso lidi esotici il più possibilmente lontani da quelli in cui dovranno pur sempre tornare a vivere. Difficile che in tale caravanserraglio si conservi qualcosa dell’afflato religioso del matrimonio: un venticello, al più, che accarezza le guance e si invola verso altre e più discrete destinazioni. Hai voglia di decorare le chiese di fiori bianchi da cima a fondo, dall’ingresso all’altare: l’effetto di plastica è sempre in agguato, e difficilmente viene sconfitto da un tocco di autenticità sempre più raro da riscontrarsi.
   

Il matrimonio in chiesa si è evoluto nel segno dell’esibizione sprecona, non raramente pacchiana: abiti e acconciature, cibi e vini, fiori e foto…

   

Scappare per crociere, escursioni in capo al mondo, marine insospettabili, fiordi irraggiungibili, spedizioni arrischiate o villaggi vacanze trionfo di aperitivi con ghiaccio e ombrellini e guru che insegnano a meditare aspettando l’aragosta, con qualche conflitto locale o regionale se non proprio una guerra oltre le prime colline alle spalle. Anche sposi che mai si sono sognati di fare una capatina alla Galleria degli Uffizi, subito a correre a Bali o a Machu Picchu in groppa ai lama che ancora le bottiglie di spumante e i rimasugli della torta nuziale sono sul tavolo. Il matrimonio in chiesa si è evoluto nel segno dell’esibizione sprecona, non raramente pacchiana: abiti e acconciature, cibi e vini, fiori e foto, luci e musiche, cotillons e bomboniere che sembrano sculture che sono soprammobili ma forse anche armi contundenti alla bisogna; e più quel segno è marcato e più il matrimonio viene a costare, anche agli invitati, costretti a partecipare alle spese di una cerimonia che quando finisce trae dal petto di ciascuno un sospiro di sollievo come mai più nella vita.
   

Già colpito al cuore dal divorzio, il matrimonio religioso si dimostra il meno attrezzato a fronteggiare i tempi relativistici che viviamo 

    

Intendiamoci, il matrimonio civile è benissimo avviato verso lo stesso sfavillante declino o se si preferisce destino, ma se non altro non se ne può permettere uno altrettanto scoppiettante e vertiginoso perché non sempre assistito dalla giovinezza e dalla chiamiamola pure verginità del primo matrimonio degli sposi. E poi arriva a rimorchio, è quello religioso che ha aperto la strada del matrimonio evento, del matrimonio monstre: sempre più costoso, sempre più estraniante. Ed è così che nella scelta della separazione al posto della comunione dei beni, consumato nei tre mesi estivi del divertimento a tutti i costi, sempre più per ricchi o per poveri che per imitare i ricchi si inguaiano peggio che in un film di Ken Loach, il matrimonio religioso già colpito al cuore dal divorzio, si dimostra il meno attrezzato a fronteggiare i tempi relativistici che viviamo. Anche perché la Chiesa sembra non conoscere né date né dettagli del mesto tramonto del matrimonio religioso. Troppo impegnata nella ricerca della giusta calibrazione della benedizione delle coppie unisessuali.

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