La riflessione
Il pessimismo è l'unico modo per essere felici e preservare un po' di umanità
Sconfiggere l’angoscia del “dipende tutto da te” e abbracciare la consapevolezza che le cose finiscono può liberarci dalle inutili convinzioni che ci raccontiamo
Fermi un momento: una ricerca Ipsos elaborata in Gran Bretagna dice che la felicità non è avere tantissimi soldi, essere un pop star, un influencer e altro. A parte che la maggior parte degli intervistati si è dichiarata felice nonostante la situazione internazionale, che insomma felice non è, a prescindere dal conto in banca. Secondo loro, (sintetizzando le risposte) per avere successo e preparare la strada alla felicità (perché insomma, tra le due dimensioni una correlazione seppur debole esiste) è necessario avere il controllo delle proprie vite. È una considerazione che diciamo così, si oppone alla visione tragica greca, dove appunto bravi cittadini di ogni ordine e grado erano esposti alle contrastanti obbligazioni degli dèi e ai consueti rovesci della fortuna, con tutti i casini che ne venivano fuori. Il controllo non ce l’abbiamo, sembrano suggerire certi tragici greci e per questo l’arte ci offre un rimedio che si declina attorno alla domanda: come fare a sopportare il dolore? Invece, i risultati della ricerca propongono una chiave anti tragica: se controlliamo le nostre vite, se lavoriamo duramente, se siamo gentili con gli altri (questa è bella) supereremo il dolore e avremo successo. Insomma, alle storie tragiche si preferiscono quelle in cui l’eroe lavora duro e controlla la fortuna.
Che dire, il solito (e per me abbastanza usurato) meccanismo narrativo dei tre atti: ho un obiettivo, lo fallisco ma lavorando duramente e riflettendo costantemente, applicando il libero arbitrio (cos’altro è se non il controllo sulle nostre vite), non solo risalgo la china ma scopro che dietro a quell’obiettivo se ne nasconde un altro più nobile, acceso e alato. Vabbè, c’è poi la non scontata considerazione, a latere, che in fondo viviamo in una parte del mondo niente male, che garantendo l’essenziale a tutti limita il caos e la sfortuna e ci consegna un potere sulle nostre vite che fino a qualche decennio fa non avevamo. Certo oggi esiste l’ecoansia, ma a mio padre cadevano le bombe in testa e sua madre (mia nonna) morì per una infezione che oggi si cura con un euro: se si è lavorato sulle bombe si può lavorare anche sull’ambiente.
Comunque, magari sulla felicità e il successo voi avete altre idee, tuttavia quello che importa in questi sondaggi non è tanto il risultato ma il meccanismo narrativo con il quale ci raccontiamo: è così umano. Questa convinzione che tutto dipenda da noi, che i vantaggi di nascita, di ceto, contano poco e niente, che il caos e il tempo non esistono, tutte queste credenze nascondono solo una fortissima angoscia, altro che ecoansia: e cioè che la vita non ha nessun senso. Che siate o non siate religiosi, sentite anche voi l’insensatezza, la sentite, sì? Ai tempi del catechismo Suor Vincenzina lo affermava con convinzione, questa vita è una valle di lacrime, la prossima, se seguirete il protocollo, sarà paradisiaca. È un’ angoscia antichissima, il nostro parente lontano, nel paleolitico, alzando gli occhi al cielo, con un barlume di coscienza avrà pensato: che ci faccio io qui?
Le storie che ci raccontiamo sono solo un tentativo di rispondere a questa domanda sottolineando il senso di alcune nostre azioni. Tuttavia ho l’impressione che più si esagera con la drammatizzazione del senso più si avverte l’angoscia. È come quando incontri un amico che è stato depresso e lui ti dice che ora sta benissimo, lavora duramente, si alza alle 5 per andare a correre e tu capisci (per il tono della voce, per le spalle spioventi) che è ancora depresso. Sono questi i momenti in cui promuovo il pessimismo, che d’accordo è debole sul versante speranza ma è fortissimo su quello della consolazione. L’ottimista ha questo difetto, ti promuove, ti sprona ma se poi fallisci allora la colpa è tua. Il pessimista sa che tutti siamo feriti (sì, dal caso della vita e dal tempo che passa che fa tanta malinconia, due divinità che, quelle sì, detengono il potere) e nei casi migliori propone un abbraccio universale per lenire la ferita e promuove il senso di finitudine. Le cose finiscono, questo è il senso della vita, dunque possiamo guardarle con più intensità e continuare a costruire con la necessaria attenzione sapendo che prima o poi la nostra opera verrà giù: sembra tragico, invece no. Il senso di finitudine ci libera da molte inutili convinzioni e ci restituisce un po’ di umanità che tra l’altro fa rima con felicità.
Abituati alla tragedia