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La virtuosa solitudine, un nuovo equilibrio tra contatto e distanza

Giacomo Giossi

In un mondo iper connesso, “farsi vedere” è un dovere sociale. Ma c’è chi sperimenta nuovi modi di ritagliarsi i propri spazi: non una fuga, ma una diversa e più profonda partecipazione. L’esempio dei grandi scrittori

Vladimir Nabokov non ha mai sopportato rispondere alla corrispondenza, lo considerava un obbligo imposto, una forzatura relazionale non voluta. Mentre adorava fare lunghe conversazioni telefoniche. Il telefono è stato infatti a lungo, almeno per tutto il secondo Novecento, il vero luogo d’incontro e conversazione che sostituiva in parte la fisicità dei caffè. Chissà cosa avrebbe pensato Nabokov del mix d’insistenza composto da email, Whatsapp, Telegram, Messenger e irrinunciabili aperitivi pre e post prandiali. In una società sempre più terziaria dove nonostante la retorica non è la competenza a imporsi, ma una notevole autostima circondata dal favorevole giudizio altrui, le occasioni relazionali sono diventate un dovere imprescindibile e hanno acquistato una performatività inedita al punto da sconfessarne spesso il senso e quasi sempre il piacere. Viviamo un’accelerazione relazionale apparentemente e potenzialmente senza fine, data dalla facilità di contatti reciproci e dalla marea (sempre più ingestibile) di informazioni che ogni secondo viene scaricata su di ognuno. Una produzione di dati spesso incapace di essere virtuosamente incanalata e compresa. Una massa che ha prodotto più confusione che chiarezza, più disinformazione che informazione, e che ha messo  in evidenza come il concetto partecipativo alla base di ogni costrutto relazionale sia talmente teso alla ossessiva produzione di dati da espellere da sé l’incontro stesso, il dialogo stesso. La relazione diviene così una sorta di mostro senza testa in cui la testa era la partecipazione. 

Una forma assoluta e pretesa di presenza che in caso di questioni politiche o culturali rende ancora più obbligatoria la partecipazione. Bisogna firmare, apprezzare, likare per l’appunto, rispondere, ribadire. Infine esserci con tutti i pollici a disposizione. Ora, è quasi tautologico verificare quanto queste forme assolute di insistita presenza coincidano spesso con la loro stessa negazione. Avere a disposizione tutte le informazioni, invadere ogni dibattito, occupare ogni ragione corrisponde il più delle volte a una presenza priva di senso che è più facile tradurre in una vera e propria angosciante assenza. Il rimbombo di una stanza vuota più che un reale controcanto.

Esserci non comprende banalmente la pronta risposta all’appello  e non riguarda una disponibilità ovvia all’urgenza del momento. Alle volte la stimolazione mediatica generale o delle proprie bolle relazionali può alimentare un’onda emotiva che sicuramente è parte dell’essere presente, ma al tempo stesso resta una forzatura, un obbligo implicito. Rispondere a tono sui social, formarsi un giudizio, addirittura scendere in strada, divengono più che altro forme di rappresentazione dell’essere, ma che dell’essere succhiano ogni risorsa, ogni spazio di elaborazione. Una presenza esclusivamente rappresentata resta sempre una presenza assente, il cui corpo nella migliore delle ipotesi è cavo. Anche senza arrivare a coinvolgere l’anima o l’animo, è evidente che l’essere comprende una relazione più complessa di quella oggi spesso proposta sotto forma di scambi perforativi. Quasi una gara, un vero e proprio match il cui unico obiettivo è amplificare autostima e giudizi positivi verso se stessi. 

L’essere è una forma di capacità limitata, oltre la quale o si deborda creando una vacuità continua e controproducente, oppure si comprime portando a un’esplosione, a una vera e propria fuga dal mondo. Perdere la misura dunque implica smarrire totalmente il senso delle cose e soprattutto la loro stessa cura. La cura è infatti strettamente legata alla partecipazione, l’una senza l’altra non esiste o meglio non è efficace. L’assenza di cura è deleteria e produce una distorsione incontrollabile e dagli esiti speso nefasti: per la psiche individuale come per lo stesso contesto sociale. 

Questa tensione porta sempre di più a una forma di usura delle individualità al punto che caratteristiche comuni e magari eclettiche divengono nevrosi patologiche sempre più diffuse. Ansia, angoscia, e una generale incontinenza emotiva che riduce il corpo sociale a una sorta di mostro ecolalico compulsivo e al tempo stesso inerte.

Ritornare a se stessi diviene così una necessità e un obbligo per la sopravvivenza di sé e del pensiero. Un movimento che non ha collegamento alcuno con quel ritorno al privato che caratterizzò la disillusione degli anni Ottanta del Novecento, ma una forma di rifiuto di un discorso individualizzante che si presume pubblico, ma che in realtà è proprio per le sue caratteristiche di pervasività intima assolutamente privato. Esclusivamente privato.
E’ necessario dunque ridare qualità e spazio e fiato a una vita interiore che da sempre rappresenta il luogo primario di ogni forma di elaborazione. Un necessario accudimento dell’intimità perché possa ritornare a generare scambio e confronto. Tornare a sé assume il significato di riprendere in mano una strumentazione dimenticata che riguarda le proprie capacità percettive, un movimento fondamentale per dare forma a una buona traduzione delle informazioni e soprattutto per ridefinire il luogo di una cura del sé che porti conseguentemente a una possibile o almeno potenziale felicità. Perché come si è già detto – e si citava Edmund White – se il lavoro culturale più che sulla competenza si basa sull’autostima e sul giudizio altrui, affinché questi due elementi non si trasformino in una sorta di droga artificiale e ingannevole, bisogna sempre ricordare che il lavoro culturale ha senso solo se porta alla felicità almeno come ambizione e non a una greve visibilità o peggio ancora a una ridicola apparenza di potere. Avverte lo psichiatra Paulo Barone nel libro Il bisogno di introversione (Raffaello Cortina Editore): “Il processo di sgretolamento delle dominanti collettive reca con sé la crisi definitiva dei ‘modelli’, delle forme esemplari delle cose, e dell’equilibrio che la loro sussistenza in una cultura assicurava”. 

Il tema dunque non è quello di abbandonare il campo, ma di provare a riconoscere una nuova geografia delle cose che mappe desuete non rendono più credibile e quindi efficace e riconoscibile. In ambito lavorativo, anche spesso culturale, gli atteggiamenti isterici nascondono null’altro che l’inconsistenza di azioni forzate in quanto prive di senso. Una modalità di controllo desueta perché non va più a colpire il fu operaio-massa, ma l’intimità biologica dei singoli. Una pretesa di sfruttamento che si traduce in un miserabile funzionalismo privo di reale produttività e oltretutto capace di azzerare ogni potenzialità creativa sostanziale.

Come efficacemente sostiene Paulo Barone, non siamo così di fronte a una fuga o a un ripiegamento né tanto meno a un’incontrollabile pulsione narcisistica, ma all’opposto a un tentativo di messa a fuoco dentro al quale rientrano una serie di dinamiche tra cui la ormai esplicitata difficoltà alla concentrazione (leggibile anche come impossibilità di una libera distrazione). E non è un caso gli scrittori più rappresentatavi del contemporaneo, anche al di là dello stile letterario, pensiamo a Cormac McCarthy, siano stati e sono tuttora principalmente degli umani isolati. Figure prive di connessioni relazionali all’infuori della sfera affettiva (e quindi di senso reale). Salinger ne è forse la figura apicale, ma non sono stati da meno Philip Roth, David Foster Wallace, Milan Kundera e ancor oggi Thomas Pynchon e Joyce Carol Oates. 

Una forma di isolamento che va al di là delle singole nevrosi e che comunica una necessità primaria che vive – al contrario delle apparenze – nelle cose e nel sapere e dovere cogliere il proprio tempo. I loro libri, la loro icastica bellezza e potenza, la loro capacità di contenere un mondo così confuso per chiunque altro, sono lì a dimostrarlo, senza alcuna ombra di dubbio, senza alcuna possibilità di smentita. La crisi dell’intellettuale passa anche da questo cortocircuito, che vede una forma di engagement sempre più desueta e anche sempre più (inevitabilmente) cialtronesca. Hai voglia a discutere su Twitter con tizio e caio, hai voglia ad argomentare su Instagram. Per non parlare di quello spazio televisivo ormai totalmente pervasivo che ha abilmente tradotto appiattimento e censura con la formula inappellabile dei “tempi televisivi” (anche se si è su TikTok, o su YouTube). Quella dell’intellettuale impegnato è una modalità di partecipazione che discende non a caso dagli illuministi dell’Encyclopédie e che si cristallizza nel Novecento grazie ai giornali, alle case editrici e a una forma più aperta e duttile di accademia.

Una modalità che diviene nella società dello spettacolo moda e infine modello, anche se non si sa di cosa. Un modello inutilizzabile se non per la costruzione di emuli e macchiette. Un tentativo contraddittorio di semplificazione e sempre più spesso di banalizzazione. Una traduzione che vive solo sull’apparenza, sul gesto effimero, quando almeno esisteva il gusto. Perché a oggi è rimasto solo il gesto, una vera e propria panoramica del darsi di gomito. Un’incapacità sostanziale e formale di spiegare le pieghe delle cose, una violenza malcelata capace di schiacciare e conformare. In altri termini, la comunicazione quale assoluta e unica via per una comprensione, certamente sempre più ridotta, sempre più inefficace, ma tanto seducente e rassicurante.

Un andamento adattativo che mostra picchi e cadute continue, mai nessuna possibilità di introversione. Il branco è una questione individuale, la mischia è personale e i conti si fanno in reti sovrapposte di chat dentro alle quali ogni cosa vale e ogni cosa si azzera. Una pace dei sensi raggiunta al prezzo di anni di astinenze. La piccola morte slitta dall’orgasmo alla spunta blu, il cui inedito pagamento è solo un aspetto di chiarezza sui termini della questione. L’immediata risposta non può che essere quella della fuga, di un ritiro repentino da una confusione totalizzante, da una società mutata in una macchina celibe incontrollabile e profondamente detestabile. La pretesa presenza infatti impone anche una parcellizzazione delle biografie dei singoli, quasi come fossero delle camere a tenuta stagna in cui ogni relazione debba essere in qualche modo sterilizzata e governata. Una forzatura faticosa che crea potenziali camere a pressione facilmente esplosive. Una fatica estrema come racconta Daniel Schreiber nel suo saggio in parte autobiografico Soli (Add editore). Un testo breve ed efficace che spiega quel movimento spontaneo che sta trasformando le società e in particolare quelle dei grandi centri urbani in luoghi abitati da solitari, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra piacere e necessità. 

Una solitudine ricercata, ma non ostinata, non una porta chiusa sul mondo, ma il recupero di uno spazio vitale (quello interiore) senza il quale è impossibile esserci per davvero. Una modalità accentuata certamente dalla pandemia e dall’isolamento obbligato, ma che oltre ad avere alimentato (o forse svelato?) un disagio sociale, ha offerto anche una possibilità diversa – non semplice e non priva di dolore – di presenza nelle cose. Scrive Schreiber: “La sensazione di liminalità permanente è un problema tanto sociale quanto individuale. Sconvolge la nostra ecologia interiore, mette sottosopra le risorse emotive e ci trasmette un tale senso di irrealtà da farci apparire paradossale la vita stessa”. 

Sta prendendo corpo un movimento che non è quindi di fuga, ma è qualcosa di diverso che può riportarci nel cuore delle cose. Un nuovo equilibrio e spazio tra comprensione e silenzio, tra contatto e distanza. Nel 1979 al suo esordio come prosatore Paul Auster scrive in Spazi bianchi: “Pensare al movimento non come mera funzione del corpo, ma come estensione della mente. Parimenti pensare alla parola non come estensione della mente, ma come funzione del corpo. I suoni emergono dalla voce per entrare nell’aria e circondare e rimbalzare ed entrare nel corpo che occupa quell’aria, e anche se non si possono vedere quei suoni sono un gesto, non meno della mano quando è tesa nell’aria verso un’altra mano, e in tale gesto si può leggere tutto l’alfabeto del desiderio, il bisogno del corpo di venire portato al di là di sé, proprio mentre risiede nella sfera del proprio movimento”.

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