facce dispari

Umberta Telfener: “Il patriarcato muore e l'amore fa più paura”

Francesco Palmieri

Psicologa, amorologa, autrice del best-seller Ho sposato un narciso: "I maschi hanno perso potere. E lo sgretolamento dei vecchi valori ha messo nei pasticci i giovani". Intervista

Fu l’incontro occasionale con un bambino autistico che si chiamava Oliviero a determinare il futuro di Umberta Telfener, allora giovane laureanda in Filosofia, romana di ascendenze inglesi e genovesi. Quel giorno pensò che avrebbe voluto capire la mente del bambino; poi che avrebbe voluto capire cos’è una mente; scoprì la psicologia e prese un’altra laurea, girò il mondo per conoscere sciamani pellerossa e buriati, credette e crede nella teoria sistemica e nella complementarietà dei saperi. Ha lavorato come psicologa clinica, si è dedicata alla terapia e alla scrittura ma non è ascesa all’eden delizioso e ambiguo dei guru, anche se ha firmato saggi epistemologici e libri diventati popolari: ‘Ho sposato un narciso’ è il titolo più noto, sicché alla dottoressa Telfener ci si riferisce spesso come a una “amorologa”.

Sul narcisismo c’è un’attenzione paragonabile soltanto a quella di cui furono oggetto, un tempo, le tonsille presso i medici di base.

Quasi quasi mi pento di avere pubblicato quel volume, uscito nel 2006 e che vende ancora. Sdoganai la parola “narciso” presso il grande pubblico e il risultato è che mi arrivano un sacco di donne che fanno diagnosi di narcisismo a tutti tranne che a se stesse.

Cosa la preoccupa?

Lo sport più praticato dalle donne è quello di trattare male gli uomini: forse si parla troppo poco di quanto si squalifichino e critichino i maschi. Sono stata femminista, per otto anni ho tenuto incontri di gruppo con altre donne e sono contenta che la nostra lotta per esistere ci abbia rese molto più forti. I maschi hanno perso potere, il patriarcato non è morto ma sta morendo e questa è una fortuna, però stabiliva princìpi molto netti di bene e di male, fissava valori e aspettative. Ora prevalgono le attese basate sul successo individuale, e chi non lo consegue è ritenuto colpevole assoluto del proprio fallimento. Lo sgretolamento dei vecchi valori ha messo nei pasticci i giovani, perché la libertà a tutto campo non rende più solidi ma può ingenerare mille paure.

Più tra gli uomini che tra le donne?

Registro fra le mie pazienti, anche nei casi di giovani anoressiche o ossessive gravi, una lucidità maggiore e un desiderio straordinario di riprendere in mano la propria vita. Gli uomini sono più confusi, opachi. C’è una perdita di ruolo e c’è minore consapevolezza. La confusione a volte sfocia nella violenza più truce. Fino all’orrore del femminicidio. E purtroppo, anche se è impopolare dirlo, ci sono donne che non percepiscono i rischi per eccesso di sicurezza: a fronte di certe situazioni, spesso ho dovuto insistere perché le mie pazienti incontrassero il partner al bar e non in casa. Non erano capaci di cogliere il pericolo.

Come sono cambiate le coppie?

C’è una sorta di diffuso terrore dell’amore romantico, la stranissima paura della sofferenza sentimentale, che pure è sempre stata parte del gioco della vita. Era come una brutta influenza, ma passava. Oggi si contano tante relazioni dove c’è subito sesso senza alcuna intimità. Ci sono coppie che procedono parallele per molto tempo, ma poi si mollano senza neanche avere aperto la crisi perché si sono incontrate troppo poco. Cinquantenni che a un certo punto si guardano negli occhi e domandano: “chi sei”. Però invece di dire “conosciamoci” si rispondono “lasciamoci”.

È un cambiamento che si è sviluppato in molto tempo?

Da quando siamo entrati nell’epoca dell’ipermodernità, prima ancora che la pandemia rendesse più esplicita la svolta. È mutato il concetto di tempo, c’è stato un crollo del pensiero sociale e del rapporto coi doveri. L’individuo è più solo e tra i giovani risulta evidente il contrasto fra idealizzazione e vita reale: tendono a restare nella prima sporcandosi poco con la seconda. Prevale lo spavento più che le opportunità del mondo. Non si può generalizzare, ma è evidente che sostituire l’impegno con le challenge rivela un tonfo di valori. Come se per esistere bisognasse attuare cose straordinarie e apparire a tutti i costi per colmare la debolezza dell’identità. C’è una cosa che m’impressiona parecchio: la leggerezza rispetto alla mortalità, quasi che la vita fosse un videogioco in cui la morte è revocabile. In cui si può morire mille volte, tanto si rivive sempre.

A quale generazione si riferisce?

Soprattutto ai giovani dai sedici ai trent’anni. Prima la scuola li considera come nemici ovvero, secondo epistemologie obsolete, come dei secchi vuoti da riempire. Quando cominciano a lavorare sono mal pagati, spesso poco gratificati e meno solidi dei quarantenni, che al paragone sono privilegiati.

Qualche sfumatura rosea nel panorama?

M’incuriosisce e mi conforta la quota di giovanissimi che rivelano una ripresa di serio orientamento sociale, compresi gli attivisti di Ultima generazione che trattiamo da gran rompiscatole, perché comunque testimoniano un interesse per i valori e per la riconquista del tempo. Quelli per cui non c’è solo il presente ma si preoccupano del futuro, ricordando che esisterà.

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