Foto di Riccardo Antimiani, via Ansa  

Cattivi & abbruttiti

Baby gang, pazzie al volante, insulti: siamo diventati più aggressivi

Fabiana Giacomotti

C’entra poco il post pandemia e molto la nostra immagine sui social. Un'evoluzione, o involuzione, frutto dell'improvvisa esposizione di sé 

Giovedì 13 Aprile. Nel giorno post-nomine alle partecipate statali, sul Roma-Milano delle 9.05 di Italo, appena orbata del suo amministratore delegato Flavio Cattaneo chiamato all’Enel dopo lunga trattativa di governo, il dirimpettaio in tuta e giubbotto catarifrangente ascolta musica pop a tutto volume. Lo fa con le cuffiette, correttamente, ma i decibel che promanano dal suo smartphone sono di tale portata (dalla tuta si direbbe un prossimo dipendente di Cattaneo, magari di solito lavora sui tralicci esposto al vento) che, dovendo lavorare e concentrarci oltre i quattro quarti e il basso continuo, con la signora seduta nel posto a fianco chiediamo la cortesia di abbassare il volume.

Vorrei aggiungere con simpatia che i suoi timpani ne trarranno beneficio, ma una vocetta interiore mi suggerisce di astenermi e faccio bene, perché la reazione è tale da richiedere l’intervento dell’addetta ai controlli. Noi due donnacce abbiamo avuto l’impudenza di disturbare un uomo che sta facendosi gli affari suoi in pace, e chissà quali compiti importanti dovremo svolgere, insinua. Prima di rimettermi al lavoro, un po’ scossa da quell’esplosione di violenza e di insulti per una richiesta che, tutto sommato, poteva rientrare fra le cortesie in uso nel mondo civile, tu hai diritto di ascoltare la tua musica, noi di lavorare senza distrazioni, mi domando se quel profluvio di improperi potrebbe essere rubricato nel novero delle micro-aggressioni a sfondo sessista o se la definizione valga solo per i piccoli reati comportamentali e verbali ascrivibili al razzismo o a latenze psicologiche e cognitive, cioè che sia robaccia odiosa ma non tutelabile dai numi del politicamente corretto e che insomma debba tenermi il sottotesto di tornare a fare la calza senza rompere a lui che invece è un vero uomo e portarmela a casa.

All’arrivo a Milano, un ragazzo di quel genere che potremmo trovarci allo sportello della banca sotto casa – cravatta vistosa, pantaloni del modello fasciante e corto alla caviglia dal quale gli stranieri dicono di riconoscere l’italiano medio – scavalca sul predellino una signora anziana carica di valigie senza offrirsi di aiutarla. 

Quando, due ore dopo, entro nel camerino che il Teatro alla Scala mette a disposizione del direttore ospite per incontrare Yannis Kokkos che mette in scena una “Lucia di Lammermoor” rimandata da due anni a causa della pandemia, concentrarci sul tema della violenza che sembra sottendere non solo all’opera di Gaetano Donizetti ma a ogni gesto della realtà contemporanea, appare quasi un obbligo per inquadrare quest’opera che il mondo giudica, giustamente, di portata universale, e una società che il regista e scenografo ritiene invece sia rimpiombata in un preoccupante manicheismo.  O di qui o di là, o amici o nemici, una guerra continua per bande su ogni singolo aspetto della vita quotidiana fosse pure il rispetto delle precedenze in auto, nessuna concessione alla cortesia per sé, il canino sguainato en permanence, una fatica infinita di vivere.

Al di là della sua fama di dramma del “belcanto”, opere come “Lucia” si prestano infatti benissimo alla revisione anche costante dell’archetipo della violenza umana e delle sue modificazioni sociali. “Ho scelto di collocare l’azione in un generico secondo ventennio del Novecento”, dice Kokkos, “perché le crisi economiche e sociali di quel periodo mi sembravano particolarmente adatte a inserirvi il dramma di Lucia, nel quale la pressione morale appare perfino meno forte rispetto alla violenza degli interessi che le gravitano attorno”. I personaggi del “dramma tragico come lo definisce Donizetti, non dimentichiamolo”, dalla protagonista eponima che sarebbe arduo definire una vittima, ma che è anzi assertiva e determinata come nessuna donna del 1835 in cui andò in scena avrebbe osato essere, fino al fratello Enrico e allo stesso amato Edgardo, sono infatti modellati attorno a una violenza originaria, precedente all’azione, frutto di condizionamenti sociali e famigliari, che li trasporta in ogni gesto lungo una “eccitazione costante, violenta e febbrile”, in cui si riconoscono le stesse motivazioni che oggi rendono la convivenza sempre più difficile, e che richiedono un’attenzione costante e la difesa sempre alzata.

Nella vita, come nell’opera, è come se si percepisse costantemente, ovunque, una corrente sotterranea cupa ed elettrica pronta a scatenarsi senza ragione apparente. I personaggi della “Lucia di Lammermoor”, tutti egualmente sull’orlo della follia, pronti ad accendersi a ogni minima provocazione (“non so che cosa mi abbia spinto a” è il ritornello giustificatorio che segue all’arresto di chiunque, di qualunque fascia anagrafica o sociale, per qualunque motivo, fosse una rissa “per uno sguardo di troppo” o un omicidio) non sembrano così diversi dal padre che urla al figlioletto seienne in campo di “spezzare le gambe” all’avversario di squadra sul campetto di calcio, alla madre che infila il quattordicesimo e quindicesimo ferro di nascosto nella sacca da golf dell’impossibile promessa del green, all’automobilista che ti urla “puttana” se non parti a razzo al semaforo verde dandogli naturalmente campo libero, dal professionista quarantenne che dà del “mongoloide” al cameriere che gli ha portato il conto sbagliato (nonostante l’impegno di psicologi, linguisti e media uniti, il mondo è ancora pieno di gente che ignora il concetto e il lessico della disabilità, anzi ne fa oggetto di scherno e di insulto, non venitemi a dire che lo ignorate).  

L’analfabetismo delle emozioni, la povertà lessicale, lo scarsissimo rispetto per gli altri, il dittatoriale disinteresse per il fair play, la vanagloria, si apprendono in casa, osservando, ascoltando, sedendosi a tavola. E immergendosi in quel Lete limaccioso che è il mondo sullo smartphone. Non sono affatto sicura, come iniziano a non esserlo più molti osservatori, che le colpe della deriva comportamentale generale sia da attribuire in toto alla pandemia. Sebbene le ultime statistiche sui reati giovanili, diffuse un paio di mesi fa dalla Direzione centrale della Polizia criminale, evidenzino come negli ultimi tre anni qualsiasi indicatore della criminalità giovanile sia moltiplicato a doppia cifra (gli omicidi segnano un aumento del 35,3 per cento, le percosse del 50 per cento, le rapine per strada addirittura del 91,2 per cento, quasi sempre a danno di coetanei, e già questo dato dovrebbe insospettire), è evidente che la segregazione pandemica non possa essere l’unica causa di tanta violenza, ma in buona parte una comoda scusa. E in particolare non fra gli adolescenti, ma fra i meno giovani.

La rissa della Pasquetta a Fregene, con la tizia adulta a menare fendenti e cazzotti quanto il fidanzato perché a dispetto dell’altra leggenda circolante sulla mitezza femminile date alle donne un’opportunità di menare le mani e vedrete, ma pure il ferimento del capocameriere del ristorante Maffei di Verona che ha lasciato tre di noi del Foglio interdetti perché ci trovavamo nello stesso locale una settimana prima del pestaggio e avevamo interloquito a lungo e con piacere con lo stesso ragazzo che ha rischiato di perdere un occhio per colpa degli avventori di “Avvinazzitaly”, il soprannome che la manifestazione Vinitaly si è conquistata per le troppe presenze non professionali a cui gli espositori consentono l’accesso nonostante il regolamento severo, non sono probabilmente l’espressione ultima del “disagio post-pandemico”, una di quelle locuzioni che tanto piacciono al mondo dell’informazione. Risulta infatti difficile sovrapporre l’immagine di una generazione di colombi timorosi dell’interrogazione di latino e greco al punto di abbandonare la scuola a quella delle bande che tormentano in aula gli insegnanti, filmandone l’umiliazione e rendendola pubblica per aumentare i propri follower, spalleggiati dai genitori. 

Quest’umanità feroce e ormai perlopiù incapace di reggere correttamente una forchetta e un coltello perché chissenefrega, io so’ io e voi eccetera (fate la prova, su una tavolata di dieci persone, in media solo una sa come si appoggino sul piatto a fine portata, mentre le altre nove le abbrancano come farebbero con un aratro e tengono almeno un gomito costantemente appoggiato al tavolo, talvolta entrambi) sembra infatti e piuttosto guidata da una volontà di autoaffermazione e di errata percezione di sé alimentata dai social e dal potere di cui chiunque si sente investito in virtù dei suoi cento, mille, cinquemila follower. Seguaci che non può e non vuole deludere, ai quali non vuole mostrare alcuna debolezza ma, anzi, ribadire il proprio potere.

Una reazione animalesca, da capobranco, che infatti si percepisce anche dall’aumento dei reati di gruppo, stupri compresi, tutti non a caso filmati ed esibiti come trofei, nel totale disprezzo della vittima percepita come un essere inferiore di cui disporre a piacimento, alla faccia delle pressioni sociali nei riguardi dell’inclusione, per non dire del linguaggio rispettoso delle differenze. La dissonanza che si percepisce fra l’aumento dei reati perpetrati ai danni dei più deboli e le pressioni sociali a favore dell’uguaglianza, assomiglia all’incapacità dei ragazzi che sfilano per la salvaguardia del pianeta di collegare a questa giusta richiesta di tutela da parte delle istituzioni il mancato acquisto dell’ennesima t shirt paillettata a dieci euro per l’uscita del giovedì. Accusano i governi di non fare abbastanza, ma faticano a percepirsi fra gli autori delle immani scogliere di abiti usati che hanno cambiato la morfologia delle spiagge del Ghana, cioè di essere loro stessi parte del problema, e non in scarsa misura. 

Alimentata dai social, la centralità su sé, caposaldo della cultura occidentale, si è trasformata nell’incapacità di percepire il mondo oltre il proprio naso e di ritenersi meno che esseri eccezionali a cui tutto è dovuto: meravigliosi attori di un’esistenza fuori dal comune che merita applausi costanti e mantelli stesi al proprio passaggio. Questa evoluzione, o involuzione, vedetela come volete, è frutto dell’improvvisa esposizione di sé, della scoperta di una propria dimensione pubblica da alimentare e accrescere. Rispetto ai tempi in cui erano pochissimi ad avere accesso ai media, ad apparire sui giornali e in televisione e in genere per attività non encomiabili, a causa dell’aumento delle piattaforme e delle opportunità di fare di sé argomento di conversazione e di ammirazione generale, ormai viviamo tutti in una bolla che ci permette di specchiarci continuamente, migliorando la nostra immagine con app e filtri, e di sentirci attori su un palcoscenico sempre aperto, l’occhio di bue acceso sulla nostra impareggiabile persona. 

Qualcuno, guidato e frenato da un’educazione più rigorosa, è ancora in grado di controllarsi, qualcun altro è e resta mite per natura e cerca davvero, con tenace idealismo, di migliorare il mondo, ma la maggior parte di noi è semplicemente piena di sé come Edgardo di Ravenswood ed Enrico Ashton, tutti accecati dall’orgoglio e dalla smania di farla pagare a chi ci sbarra la strada, qualunque sia quella che vogliamo percorrere. “Viviamo in una bolla che ci impedisce perfino di concepire il confronto, la sola idea che qualcuno non la pensi come noi”, dice un amico mentre ci avviamo per via Filodrammatici. Non è il Covid, pre o post. I leoni da tastiera hanno solo trovato il coraggio di scendere nella savana e di mostrare la chiostra dei denti, certi di farla, sempre, più o meno franca.

Di più su questi argomenti: