Foto di Bethany Beck, via Unsplash 

un'esperienza personale

Volevo essere madre: una generazione di donne in ritardo all'appuntamento con i figli

Berta Isla

Questione di lavoro e carriera ma non solo: l’Italia è diventata pessimista e diffidente. Ho 38 anni, mi attacco agli ultimi scampoli di fertilità e queste sono le domande che mi faccio

Con il passare del tempo, somiglio sempre di più a mia madre. Già questo fatto, di per sé stesso, mi commuove, sebbene io non riesca a distinguere bene i contorni di questo pensiero molto dolce e molto malinconico. Sarà forse che inizio a portarla dentro – più di prima, ora me ne accorgo, più di quando ero giovanissima e oppositiva, adesso mia madre me la porto dentro, con tutti i suoi alti e bassi, le sue musiche e i suoi colori, i dolori che non conosco bene, le sue punte tragiche, le sue scelte che non sono state sempre facili.

 

Sarà che ora quando la abbraccio la prendo tutta e a volte mi si poggia con la testa sulla spalla – la vita si rovescia – sarà che è diventata più piccolina, e allora adesso me la porto dentro, e il mio corpo inizia a somigliare al suo, e dopo anni che il mio viso di ragazzina ricordava a tutti i tratti sereni e pacificati di mio padre, tratti alla lontana contadini, oggi le foto di mia madre negli anni Ottanta sono immagini che riportano a me. Gli occhi con cui guarda da quelle foto sono anche i miei – ce n’è una, in particolare, mia madre indossa un meraviglioso abito bianco e degli stivali di cuoio, è seduta in un bagno che doveva essere quello della nostra prima casa, ricordo le piastrelle marroni e la vasca bianca, e le piante, dove c’è mia madre sono sempre cresciute le piante, e mia madre è appoggiata con la testa al muro, sembra malinconica, ma in fondo è solo molto bella. 

 

Mia madre era bellissima. Non penso che sarò mai bella come è stata lei. Forse nessuna di noi sarà bella come sono state le nostre madri negli anni Ottanta, in quegli attimi imperfetti fermati in foto dalle grane grosse, tutti protesi verso il futuro. 
Un mese che mio padre con i suoi colleghi scioperarono a oltranza e il suo stipendio in busta paga fu zero, andarono con mia madre in via dei Condotti col proposito di fare una follia. Mia madre comprò degli stivali molto costosi, roba da cinquecentomila lire o forse più, e credo che siano gli stessi che indossa nella foto in cui mi guarda appoggiata alla parete del bagno. Noi non potremo contare quanti stivali abbiamo comprato, e saremo catturate da centinaia, forse migliaia di foto – quasi tutte perfette. Per forza di cose non sarò mai bella come mia madre. 

 

Una mattina piena di sole stava rifacendo il letto della sua stanza, e io ricordo – è incredibile, ma lo ricordo alla perfezione, lo ricordo come se lo stessi vivendo ogni volta che lo ricordo – di averle chiesto quanti anni hai mamma, e lei senza fermarsi (sorridendo, guardandomi) mi rispose che ne aveva trentotto. Trentotto è l’età che ho adesso io, e io ricordo – è incredibile ma lo ricordo – di aver pensato, forse per la prima volta, che non ci poteva essere al mondo una donna più bella di quella ragazza che stava rifacendo il letto dentro una luce mattutina chiarissima. Aveva una cascata di ricci biondi e brillava. Sembrava un fiore, sembrava una bambina. Trentotto anni è l’età che ho adesso io, che quanto darei per avere una figlia che raccolga ricordi di me che faccio una cosa banale in una mattina di sole, una cosa qualunque, per crearne memoria, per costruirci lessico, immaginario, identità. 
Trentotto è l’età che ho adesso io, che di figlie non ne ho fatte e che mi attacco agli ultimi scampoli di fertilità per correre ai ripari rispetto a quello che oggi considero un errore. 

 

Non sono sola. A trentott’anni mi unisco in effetti a una nutrita schiera di donne che, specie nel mio paese, sempre più spesso arrivano in ritardo all’appuntamento con la maternità. Tanto nutrita, questa schiera, che faccio fatica a non vederci un fenomeno – e tanto in ritardo, il nostro arrivo, che molto spesso proprio non si arriva più. E così si aprono le porte a valanghe di dibattiti vuoti e retorici, a elargizioni di bonus talmente minimi da perdersi nell’aria, e allora voce alle Eugenie Roccelle di tutta Italia, e di nuovo sia fatta guerra di schiamazzi sulla Legge 194 – legge minima e datata che nessuno cambia e nessuno migliora da quando esiste, ma ogni volta torna al centro della tempesta, si polemizza sul solo fatto che se ne parli, si polemizza perché non se ne parla abbastanza, si polemizza perché si polemizza, si polemizza fino che a un certo punto nessuno sa più bene su cosa si polemizzi: resta l’ossessione cabalistica, spogliata di contenuti, e infine di nuovo silenzio – i corsi e ricorsi sono veri ovunque, ma in nessun luogo sono più veri che da noi. Ma quale legge sull’aborto, ma come ve lo dobbiamo dire, se i figli non ci sono non è perché li abortiamo, i figli non ci sono perché non li facciamo. Abbiate pazienza. 

 

Ho iniziato a interrogarmi sul perché di questa disfatta generazionale quando, separatami a trentacinque anni, ho cominciato perlomeno a considerare l’ipotesi che di figli non ne avrei più fatti. Che il treno fosse passato, e che io, con la terribile aggravante del mio amore per gli animali, sarei finita come quelle che portano a spasso i cani dentro al passeggino. 

 

Improvvisamente, davanti a me, si materializzavano immagini di donne che avevo sempre avuto sotto al naso e di cui curiosamente solo allora mi accorgevo: donne tra i trentacinque e i quarantacinque anni, con lavori mediamente prestigiosi, vite sentimentali tutto sommato normali, esteticamente belle o perlomeno normodotate che però non avevano ancora assolto all’ancestrale compito della filiazione. Proprio noi, la prima generazione che si era convinta, o che era stata convinta, e che quindi aveva tentato di poter avere tutto. Figlie di donne che avevano fatto progressi giganti, in termini di libertà, rispetto alle loro madri, che speravano di guardarci fare gli ultimi cento metri. Figlie di donne che avevano riempito i nostri zaini con i loro sogni irrealizzati – mia madre che a 10 anni mi regalava Miti Greci di Robert Graves, scrivendomi nella dedica “all’amore di mamma, perché diventi una donna forte e colta” – dedica che spesso ho ritenuto un anatema – mia madre che la parola ripetuta più di frequente negli anni della mia crescita è stata “libertà”. 

 

Soprattutto, figlie dei magnifici anni Ottanta – grossi, grassi, fantasiosi anni Ottanta, spregiudicati anni Ottanta, anni geneticamente modificati, quando il pil correva come il vento e i film cult finivano con prostitute che, pur avendo pizzicato il miliardario Richard Gere, decidevano comunque di finire il liceo. 
Noi, quella generazione a cui era stato fatto credere di poter avere tutto, figlie del sogno italiano, ci troviamo a distanza di vent’anni stremate e affaticate a fare i conti con quanto non siamo riuscite a ottenere, ché in molti casi, anziché tutto, non abbiamo ottenuto niente.
Cosa è successo in questi vent’anni in cui abbiamo faticato per arrivare a questo, dove siamo state, come cambiava la scenografia rispetto a quando ci avevano educate a sognare. 

 

Il mondo è cambiato – l’Italia è cambiata, diventando un paese sempre più inclinato verso il pessimismo, senza coraggio e senza visione, un paese a crescita striminzita – striminzita de mano e striminzita de core, una Repubblica fondata sulla diffidenza verso l’altro e verso il futuro. Dove i ragazzi oggi sognano di diventare commercialisti come i loro padri, il posto fisso per difendersi da questa società impaurita e triste. Un paese dove conservazione e restaurazione rappresentano il vero antidoto alle incognite del futuro. 

 

Questo è l’humus in cui ci siamo formate come individui, questo è il terreno dove abbiamo cercato di farci largo, in alcuni casi riuscendoci, in altri meno, nella maggior parte dei casi appena appena frustrate ché, forse, avremmo meritato di più. Fino a che – chine, ansimanti e piegate sulle ginocchia a riprendere fiato da questa corsa ad ostacoli, qualcuno bussa improvvisamente alla nostra spalla. 
Oh, guarda che ti sei dimenticata una cosa.
Che mi so’ scordata. 
Eh, ti sei scordata il figlio. 
Cazzo, il figlio.

 

Mentre passavamo le nottate nelle redazioni o negli studi legali, nei ministeri, negli ospedali, mentre ci impegnavamo, come ci era stato richiesto, a costruire un’immagine più solida di noi nel mondo, piano piano riappropriandoci di un po’ di dignità con il passare del tempo, ci siamo incredibilmente dimenticate di fare figli. 

 

Questa dimenticanza ha molti nomi, e prende varie forme. Ad esempio, la dimenticanza si è certamente declinata nella profonda convinzione di avere il diritto ad aspettare il momento giusto e persino l’amore – convinzione in tutta franchezza molto spesso nevrotizzata: sospetto che ciascuna di noi, perlomeno a momenti, abbia temuto che questo vizio di pensare che dietro l’angolo ci fosse di meglio avrebbe infine portato al Modello Gattara. Che anche tutti quei libri, quella costante esigenza di miglioramento di sé, tutti quei viaggi, avrebbero infine portato al Modello Gattara. Comprarsi i fiori da sola per casa – l’ho sempre fatto, da un certo momento in poi. Quasi ogni volta, con il remoto pensiero che fosse il primo passo verso l’inevitabile Modello Gattara. 

 

Nel mio caso, pure ho aspettato di riconoscermi davvero in una professione e in un’immagine pubblica – o, meglio detto, ho aspettato che quello sforzo di costruzione, eliminazione e definizione che non si conclude mai, si attenuasse invece almeno un po’, perlomeno che se ne concludesse il primo capitolo, che mi desse almeno un po’ di tregua – ho aspettato di poter guardare con un po’ di soddisfazione il risultato di tanti sforzi. Ho aspettato la fine del Vietnam iniziato la sera stessa dei festeggiamenti della laurea – ma forse anche prima, con quel cammino obbligato che è proprio dell’asino, le restrizioni alla libertà di scelta per chi è certamente nato nella parte privilegiata del mondo, ma non così privilegiata da poter sfidare un paese e una società timorose e stantie perseguendo desideri fuori dagli schemi. 

 

Cosa è successo, a ben vedere, in questi 15 anni, o quasi, se mi guardo indietro. In questi quindici anni in cui il mio ormone antimulleriano decresceva, in cui i follicoli antrali diminuivano inesorabilmente e la natura faceva il suo inevitabile tic tac senza che io vi prestassi attenzione: è successo che ho lavorato molte più ore di quante non ne abbia vissute, che ho sgomitato in un mercato del lavoro povero, spietato come può essere spietata la guerra tra poveri, con uno stato non solo di nessun supporto, ma più spesso nemico, e in ogni caso farraginoso, sleale, uno stato che non restituisce nulla in cambio degli sforzi, che non premia i migliori, ma neppure i peggiori, uno stato che non premia e non aiuta nessuno, che succhia energie vitali e le disperde insieme a tutto il resto, nel buco nero dell’indifferenza per i suoi giovani e più in generale per i suoi cittadini – suppongo che ciascuno di noi abbia le proprie legittime recriminazioni. 

 

A cosa pensavo 10 anni fa, quando lavoravo fino alle 11 di sera – che c’è che io, ahimè, per molto tempo non mi sono coricata presto la sera – e spesso nei weekend – mal retribuita e tuttavia privilegiata in quanto retribuita – quando cercavo di capire come pagare le tasse e scoprivo di averne sempre di arretrate e di mancanti, quando una caldaia rotta era un problema rimandato per giorni, e la mia nutrizione funzionale si fondava sul tonno in scatola. Pensavo alla carriera? Non saprei – certamente sono stata ambiziosa, ma guardandomi indietro a un mercoledì, un giovedì tipo di quegli anni lì, istintivamente direi che pensavo a portare a casa la giornata. 

 

Ciò che è certo, è che la mia era, così come quella delle mie colleghe ritardatarie, una vita dall’impronta opposta alla creazione e costruzione, incompatibile con l’idea di dare una casa a una creatura, prima con il corpo, poi una casa vera e propria, poi un sistema di equilibri. Ciò che è certo, è che il mondo che l’Italia ha costruito dopo quella promessa, è stato un mondo in cui il tetto di cristallo lo si è visto solo da lontano, un mero miraggio, un’idea esotica venuta dall’Occidente, un’utopia. Forse solo a pietrate dal basso, avremmo potuto sfondarlo, ma eravamo comunque troppo indietro, non ci si poteva occupare del tetto di cristallo mentre ci si allagava casa. Ciò che è certo è che questo mondo pessimista e mesto, l’Italia della colpa, è stata tutto tranne che un luogo di creazione. In quegli anni, e con quella modalità sopravvivenza on, certo non si creava e certo non si figliava. 

 

Non ignoro, naturalmente, il rischio di cadere nel vittimismo à la Meghan Markle dei poveri, la signorina che piange disperata su una coperta di Hermes dalla sua magione di Montecito. Sono – e siamo, con le altre donne con cui condivido la mia condizione – padrone e in un certo senso vittime delle nostre scelte. Riconosco di non aver desiderato un figlio sopra ogni cosa – sicuramente non l’ho desiderato sopra una mia profonda realizzazione personale. Non ho desiderato un figlio disperatamente, e non nascondo di essere spesso dilaniata dal dubbio che non aver desiderato disperatamente significhi non aver desiderato abbastanza. 

 

E quindi oggi, forse avendo desiderato male, forse non avendo desiderato abbastanza, con le altre donne ritardatarie condivido (perlomeno credo) il senso di colpa di queste mie scelte, la paura della loro ineluttabilità, e persino il discredito sociale che ne deriva. Arrivare a questa età senza aver fatto figli significa, per la collettività che sempre guarda e sempre giudica, aver privilegiato tutto il resto rispetto al desiderio di maternità. Non importa che ci fosse stato detto che si sarebbe potuto ottenere la maternità, ma anche tutto il resto, né importa che ottenerlo ci sia costato una fatica disumana, fatica che nel frattempo essiccava il desiderio di maternità – la colpa e il discredito derivano dal non aver capito che così non era, che non c’era tempo, e di non essere state in grado di essere ovunque, di fare tutto. 

 

Forse è questa la ragione per cui, più di ogni altra cosa – più del marito bono, più del phd a Cambridge, più del marito bono e del phd a Cambridge insieme, più del successo dei soldi e del posto nel cda – è la maternità, oggi, a essere il vero status symbol. Le donne che popolano i social network descrivendosi prima di tutto come mother of two, o madre di Orsina e Fiammetta, Chiara Ferragni che dal palco di Sanremo indossa il vestito madre-guerriera e inzeppa le proprie pagine con scene di vita famigliare in pigiama. Podcast sulla maternità, dibattiti sulla maternità, il work life balance che in realtà, se non hai dei figli, puoi anche togliere il “life” che tanto è uguale – siamo oltre alla famiglia Barilla, siamo alla metafisica della mamma glam. La futura madre che lavora con il pancione ha sostituito l’immagine della donna con i piedi sulla scrivania nel suo ufficio all’ottantesimo piano del grattacielo. Sono loro le donne che hanno vinto, sono loro lo status symbol  – perché, mentre noi pensavamo a come ottenere tutto, loro, in un modo o nell’altro, si sono ricordate anche di figliare.  

 

Noialtre seguiamo, arrancando in ritardo, noi che padroneggiamo con disinvoltura parole come blastocisti, riserva ovarica, corpo luteo e progesterone, e che con disinvoltura queste parole le usiamo a tavola con le amiche la sera, confrontando il listino prezzi delle cliniche per la riproduzione assistita, noi che ci telefoniamo per raccontarci quanti ovuli abbiamo prodotto questo mese e il prossimo chissà. Noi che ostinatamente cercheremo il romanticismo e la magia della riproduzione anche con la conta dei giorni e le punture sulla pancia. Che ci arriveremo già un po’ stanche, se ci arriveremo, un po’ provate, se ci arriveremo, a questo appuntamento ancestrale, e chissà se ne sarà valsa la pena. Noi che in qualche modo, forse, sarà bello lo stesso, poi ve lo facciamo sapere. Noi che quasi ogni giorno, da qualche anno, non possiamo fare a meno di pensare che se solo l’avessimo presa prima, questa maternità. 

Di più su questi argomenti: