Foto di Mario De Munck, via Wikimedia Commons 

il figlio

Storia di Chantal Akerman, che ha dedicato vita e arte a sua madre

Giacomo Giossi

Torna una delle più importanti registe del dopoguerra. La Tartaruga porta in Italia il libro che ha condotto a "No home movie", documentario-testamento. Il racconto di due vite legate, in un rapporto estremo e doloroso  

Chantal Akerman è stata una delle più importanti e influenti registe cinematografiche europee del secondo dopoguerra. Figlia di ebrei polacchi (deportati ad Auschwitz) e belga d’adozione, Akerman, fortemente ispirata dalla visione di Pierrot le fou di Jean-Luc Godard, che la convinse alla carriera cinematografica, e influenzata dal New american cinema, ha girato alcuni tra i più rilevanti film del cinema sperimentale degli anni Settanta

Difficile sintetizzarne l’opera per ampiezza e originalità: oltre quaranta lavori tra lungometraggi, video installazioni, documentari e film di finzione. Un lungo percorso intellettuale fatto di duri conflitti e ripensamenti (anche rispetto al proprio stesso lavoro) che raggiunge il suo apice teorico proprio con l’ ultimo documentario. 

È possibile infatti avvertire come la cineasta belga abbia compresso la propria visione e insieme la propria fatica esistenziale nel suo ultimo capolavoro, No home movie del 2015. 

Presentato al festival di Locarno, il documentario sarà anche il suo ideale testamento, Akerman si toglie infatti la vita nell’ottobre dello stesso anno, a pochi mesi di distanza dalla morte della madre a cui No home movie è dedicato. 

Origine e canovaccio di quel documentario è Mia madre ride che originariamente pubblicato nel 2013 arriva ora in Italia per l’attenta traduzione di Giorgia Tolto nelle rinnovate edizioni La Tartaruga. Mia madre ride ha la forma di un lungo piano sequenza dentro al quale la quotidianità dell’anziana madre assume la forma infinita di giorni sempre uguali, trascorsi nel suo appartamento: tra il letto per la notte e la poltrona per il giorno. In questo sfondo emotivo denso di angoscia e di paura si rispecchia l’esistenza della figlia. 

Chantal Akerman dà forma, attraverso i silenzi materni, a una vera e propria autobiografia. La madre diviene lo specchio di un’esistenza fatta di incontri, viaggi e amori complicati quanto spesso fonte di profondo dolore. Un’esistenza segnata da una tensione intellettuale sempre vigile che la cineasta mette a confronto non tanto con quella della madre, ma con la sua capacità di difendere e al contempo offrire una forma di memoria possibile. Costruito per brevi paragrafi, il libro riesce a contenere sia l’efficacia di un reportage fatto di appunti colti in presa diretta, sia la densità di una riflessione che Akerman porta avanti da tutta la vita. 

Una riflessione che gioca fortemente su un dialogo estremo e radicale con la madre, fatto di visioni più che di parole. Un recupero della memoria che vive e prende forma in una contemporaneità sempre più affollata di fantasmi, rimpianti e un senso incomprimibile di inadeguatezza. Il tempo vissuto dalla madre, fatto di una mobilità sempre più limitata dalla malattia e dalla vecchiaia si rispecchia in quello della figlia in cui la depressione e l’angoscia limitano ogni possibile forma di rinascita. 

Due vite legate inevitabilmente, quella della madre e quella della figlia, anche se formalmente estranee l’una all’altra. Due vite che restano avvinghiate da un senso terribilmente doloroso dell’amore che porta in un certo senso a una sola morte, a una morte comune, contemporanea. 

Le fotografie che attraversano il testo provengono dai lavori di Akerman e si legano al testo come pezzi di una memoria possibile: i giorni a New York, un parco attraversato nella nebbia, la madre giovane, i pranzi con lei. Mentre la madre resiste, la figlia assiste ritornando sui passi di un amore che pare prendersi spazio in un addio, alla madre e a se stessa. Il finale è tutto al passato, al tempo che ci è voluto per esserci e per amarsi.

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