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L'Irlanda senza Cristo dice che il vino fa male. In difesa del corpo, dimentica il trascendentale

Camillo Langone

L'isola verde prima ha smesso di credere. Adesso si rivolta contro il liquido sacro. Ma non c'è nulla di sorprendente: è un tipico caso di statalismo salutista che a volte è dirigismo, a volte autoritarismo, a volte dittatura

"Assurda”, secondo il ragionevole Tajani, “la decisione dell’Irlanda di introdurre un’etichetta per tutte le bevande alcoliche, incluso il vino italiano”. E ovviamente si parla di un’etichettatura negativa, scoraggiante, tipo quella sui pacchetti di sigarette: lasciate ogni speranza di salute voi che bevete… Ma l’aggettivo non è il migliore che si potesse scegliere. “Assurdo”, secondo il vocabolario, significa “contrario alla ragione, al buon senso”, parola per descrivere “anche cose o fatti reali, ma quasi incredibili per la loro stranezza”. Purtroppo nell’attacco irlandese al vino non vedo assolutamente nulla di strano. Già nel 2011 lo scrittore irlandese Colm Tóibín scrisse, molto compiaciuto: “Oggi il cattolicesimo in Irlanda è finito”. D’accordo, Tóibín è un anticattolico matricolato, un omosessuale omosessualista che ha osato scrivere un “Testamento di Maria” in cui Gesù viene definito “falso e pomposo”. Ma l’apostasia dell’isola verde è un fatto riportato da tutti gli osservatori di tutti gli orientamenti: “Un paese un tempo cattolico e ora patria della stampa laicista più aggressiva d’Europa” (George Weigel). “Nel 2015 l’Irlanda è diventata il primo paese al mondo ad approvare il matrimonio omosessuale con un voto popolare” (il nostro Meotti). “Una volta andavamo tutti a messa. Adesso, sotto una certa età, non ci va quasi nessuno” (David Quinn).

 

La nazione di San Patrizio, San Colombano, San Gallo, San Cataldo, un tempo arcicattolica, a un certo punto, sobillata dal principe del mondo e dai suoi addetti che sono Legione (i media, il cinema, i Tóibín…), si è rivoltata contro Cristo e adesso, coerentemente, per nulla assurdamente, si rivolta contro il vino che del cristianesimo è il liquido sacro (dubito che si possa essere al contempo cattolici e astemi e sono certo che non si possa essere al contempo sacerdoti e astemi: durante l’eucaristia un poco di vino lo devi fare per forza). E pazienza se insieme al figlio della vite traballano gli alcolici peculiarmente irlandesi, birra e whisky, questa è un’epoca di omologazione e non di differenze, oggi un Piero Ciampi non la scriverebbe più la canzone in cui un artista bohémien “beve come un irlandese”, lassù a Dublino qualcuno si lamenterebbe per il vieto stereotipo.

Assurdo sarebbe prendersela più di tanto con l’Irlanda, come se l’isola incupita non fosse avanguardia di un fenomeno globale, di uno statalismo salutista che a volte è dirigismo, a volte autoritarismo, a volte dittatura proprio. E qui mi riferisco alla pandemia di polmonite cinese, non irlandese, durante la quale, sempre accampando motivi di salute pubblica, i leviatanici sono arrivati a togliere l’acquasanta dalle acquasantiere (questo ai vescovi italiani non lo perdonerò mai, che Dio mi perdoni: mai). Ma pure ai divieti di fumo imposti dallo stato etico o dal comune etico, in Nuova Zelanda o a Milano. Se non si crede più nel trascendente, meno che meno nella meravigliosa immortalità dell’anima, ma solo nel corpo precario, e se la salute del medesimo è totalmente delegata allo stato, è ovvio, non assurdo, che piano piano venga vietato tutto. Perché tutto può fare male: non solo il vino italiano, l’intera libertà dell’uomo.

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).