Foto via Olycom 

Dal 1940

Il Capodanno dei bei tempi. Come sono cambiati i ricevimenti

Fabiana Giacomotti

Dal brodo di tartaruga: riti, galateo, bon ton. Constance Spry suggerisce di irrorare la zuppa con un bicchiere di sherry. Dorothy Draper un picnic "gipsy style". E adesso con due portate, un'insalata e il dolce si è rischio di eccesso. Cos’erano le feste di una volta

Secondo il “Libro di casa 1939” dell’Editoriale Domus, il menu ideale per i ricevimenti di Capodanno 1940 doveva prevedere timballo di maccheroni, galantina di pollo con gelatina, spinaci alla panna, pastine caramellate ripiene, oppure tortellini in brodo, fagiano arrosto con “cavolini di Brusselle” (l’italianizzazione della toponomastica era cosa fatta già da un quinquennio), zuppa inglese e uva fresca. A occhio, dieci ore in cucina anche in presenza “dell’aiuto di casa”, escluso il tempo per la spesa e naturalmente quello per sistemarsi le mani e lavarsi i capelli dopo una simile impresa culinaria, a cui le “pentole in alluminio italiano della Metallurgica Lombarda Piemontese”, indispensabili “a ogni brava massaia italiana per contribuire alla campagna autarchica” nonché fulgido esempio di pubblicità spacciata per patriottismo, dovevano offrire un aiuto pari a zero.

 

Ho scovato il volume settimane fa sul banco di un rigattiere di libri e fumetti che frequenta la sponda piemontese del Lago Maggiore, zona dove fino a qualche tempo fa poteva capitarti di intravvedere il busto di Mussolini inframmezzato alle bottiglie di liquore sui ripiani di un bar e di non trovare un’anima che la ritenesse un’apologia del fascismo. Ha la copertina a quadretti bianchi e verdi di quel punto di colore tardo déco, al tempo stesso denso e brillante, che si scorge ancora sulle facciate di certi palazzi coevi della zona di corso Sempione, a Milano, e anche al lordo delle prime pagine dedicate “al nostro re” e al “duce in cui sono confluite tutte le esperienze della stirpe italiana”, è un’assoluta delizia di impostazione editoriale (la direzione è del fondatore, Gianni Mazzocchi, la supervisione di Gio Ponti), illustrazioni (Brunetta), annotazioni di costume (un racconto d’amore coniugale di Orio Vergani che trasla in quattro paginette strepitose i riti sacrificali del regime al dio dell’elettricità). 

 

In ultima pagina è riprodotta la copertina del numero di dicembre di “Domus” con una tavola di festa apparecchiata in perfetta simmetria cromatica e l’offerta di abbonamento a cento lire a tutte “le signore che vogliono avere una bella casa, confortevole, elegante e moderna e possono valersi dei migliori architetti e artisti del mondo che vi collaborano, scrivono e illustrano i loro lavori”. È a quel punto che, leggendolo ottant’anni dopo, ti viene il dubbio e la speranza che l’abbiano fatto in molte: magari fosse capitato a te di poter barattare i banali servizi dei tg nazionali di questi giorni sulle “tavole delle feste”, immancabilmente bianche e oro e con molti suggerimenti per risparmiarla, l’elettricità, per una noticina di Eugenio Fornaroli o di Ponti sull’allestimento della stanza dove offrire la “colazione” e il “pranzo” secondo un uso francese che, al contrario di Courmayeur diventato Cortemaggiore, al regime era stato impossibile cancellare dal lessico dei residenti del nord. 

 

I pranzi dati, mancati, soprattutto perduti, irritavano invece la scalatrice sociale Matilde Serao qualche decennio prima. Ne fa cenno nelle sue “Norme di buona creanza”, pubblicato nel 1900, anni napoletani effervescenti: “Nelle regioni settentrionali, e specialmente nei due grandi, civili, mondani centri di Torino e Milano dove più si sente l’influenza dei sontuosi costumi ospitali francesi, ogni specie di pranzo, da quello di alta etichetta a quello intimo, è assolutamente alla moda. Come si scende verso l’Italia centrale e, sovra tutto, come si scende nella gran regione meridionale, questo uso così bello e simpatico si viene dileguando… Da che dipende? Dalla pigrizia delle signore? Da uno spirito di grettezza? Dall’organizzazione un po’ difficile di quanto ci vuole per dare un buon pranzo? Chi lo sa. Negli ultimi tempi qualche pranzo è stato dato, si dà, in qualche grande albergo, per non avere fastidi in casa”.

 

Qualcuno però, evidentemente, il cartoncino “inviato almeno quindici giorni prima” doveva averglielo fatto avere, il pranzo di cinque portate, allora il minimo, l’aveva organizzato; lei si era presentata puntuale, cioè era arrivata “da dieci a quindici minuti più presto, il tempo di lasciare la pelliccia, di scambiare una riverenza, quattro parole, in piedi, niente altro” e di continuare ad indossare “i lunghi guanti scamosciati” a tavola, ma “sbottonati” e “rovesciati” nella parte che copre la mano sul polso, da cui è facile desumere che tenesse le braccia incollate al busto per non rischiare di immergere quelle dita vuote e penzolanti di camoscio negli intingoli o magari nel celebre brodo di tartaruga che, per tutto l’Ottocento e il Novecento fino a quando il rischio di estinzione ne ha vietato la caccia e la vendita, è stato il non plus ultra dello chic. 

 

Chi è nato dopo gli Anni Sessanta del Novecento non ha idea di quale sapore avesse e per immaginarlo si rifà al “Pranzo di Babette” di Karen Blixen, topos dell’ospitalità dei semi-colti che lo citano in accoppiata con le quaglie in sarcophage e che in genere, di quanto svela il grandioso racconto sulla grettezza della natura umana nulla sanno perché hanno visto solo il film, o alla mock-turtle di Lewis Carroll, “quella cosa con cui si fa la minestra di falsa tartaruga”, già un’anticipazione dello spirito ambientalista.

 

Dalle molte pagine in cui la zuppa compare, doveva essere una grassa prelibatezza ad alta densità di collagene che per acquistare aroma e chiarificarsi un po’ veniva mescolata con lo sherry brandy; nessuno, non a caso, lo inserisce fra i cibi adatti per una puerpera o per i malati come il celebre brodo di pollo delle mamme ebree, ma se ne trova traccia ancora nel 1961 in “Hostess”, il manuale sul bel ricevere della fiorista della regina Elisabetta, Constance Spry, insieme con il resto del menu ideale per accogliere gli amici nei giorni di festa. Anche questo, come il pranzo di Capodanno fascista, doveva essere pronto già dalla metà del pomeriggio e includeva, oltre alla zuppa “da irrorare con un bicchiere di sherry prima di riscaldarla”, un sauté di manzo con funghi e gelatina, un must delle cucine inglesi dai tempi di Enrico VIII, e pancake per le crepe pralinate “da tenere arrotolati come sigari”, pronti per essere infilati nel forno. 

 

La serata che ne sarebbe uscita, in teoria, avrebbe dovuto ricordare agli ospiti quella delle case più altolocate di cui, pur non avendovi mai partecipato e con poche speranze di farlo, leggevano avidamente sulle riviste e quasi certamente su altri manuali, imitando cioè gesti e usi di seconda o terza mano narrati da cortigiani, chef, fornitori e camerieri. Eppure. Dai tempi di monsignor Della Casa, ma ovviamente in misura maggiore dopo la Rivoluzione Francese e l’“enrichissez vous” di Louis Philippe che esortava milioni di bottegai a sognare in grande, i manuali sui modi più corretti e sofisticati per ricevere e intrattenere gli ospiti rappresentano un indicatore senza pari dell’evoluzione della società borghese occidentale, insieme con i libri per gli ospiti, gli scrapbook infantili vittoriani e i “livres des atours”, cioè gli album dei ritagli di stoffa degli abiti realizzati dai propri sarti, accompagnati a misure, costo e occasioni di uso, che un tempo erano appannaggio dei re e delle regine, redatti da un titolato al servizio del guardaroba reale, ma che nei secoli si erano diffusi anche fra gli altoborghesi, tanto che ne ho scovato uno degli anni Trenta nel lascito della moglie di un ambasciatore reggino all’archivio di Max Mara. 

 

Di questo genere di volumi ho un’intera collezione. Negli anni ne ho scritto perfino uno con Carlo Rossella che, per quanto avesse scopi ironici e dissacratori, venne preso maledettamente sul serio e persino ristampato un paio di volte, a dimostrazione che non sono l’unica a subire il fascino perverso di gente che ti suggerisce come agitare il mixer con grazia, cioè senza sembrare un suonatore di maracas, e a scegliere la misura dei tovaglioli a seconda dell’occasione. Per quanto apparentemente frivoli, superficiali, in fin dei conti inutili (ho ereditato otto servizi di bicchierini che mi è stato detto siano da vermouth, non conosco nessuno che ne beva, non so neanche bene che cosa sia, ma non trovo il coraggio di rivenderli e infatti li uso come vasetti centrotavola), questi manuali hanno il magico potere di farti sentire inadeguato anche se sono stati scritti da gente che poteva contare su sedici persone di servizio e serviva Dubonnet alla regina di Inghilterra mentre tu devi implorare Patricia di restare la sera a servire la minestra di riso e non ricordi dove hai messo quei sottobicchieri tanto carini con i disegni futuristi.

 

Queste guide erano, lo sono tuttora a giudicare da certi ridicoli tutorial zeppi di errori marchiani ma pieni di sussiego che girano sul web e in un caso hanno perfino trovato posto in un corso universitario, viatico della possibilità, o della speranza, di una qualche scala sociale a cui afferrarsi e da percorrere, un gradino scivoloso dopo l’altro, afferrandosi al lembo misericordioso della tovaglia perfetta “che può essere anche in rayon” come suggeriva nel 1941 Dorothy Draper, la prima arredatrice di interni della storia, ben sapendo come la seta vera fosse ormai destinata ai paracadute degli alleati. La sua guida più famosa, “Entertaining is fun. How to be a popular hostess” venne scritta nel 1941 ma l’ultima ristampa, con i disegni originali e le foto delle sue case in stile “Hollywood Regency”, pavimenti in marmo a scacchi bianco e nero, pareti a strisce bianche e verdi, data 2004 per Rizzoli New York. Inalterata. Come la contemporanea Diana Vreeland che negli stessi anni aveva modulato i propri consigli di stile su “Harper’s Bazaar” ai tempi di guerra, suggerendo recuperi creativi degli avanzi, ecco Dorothy Draper che suggerisce un picnic “gipsy style”, con falò e scatolette di fagioli in mezzo alla neve “mentre si va nei boschi a raccogliere pungitopo e vischio”, e sembra già anticipare Charles Schulz con le strisce dei Peanuts e quell’America postbellica che esporta sogni di riuscita e la narrativa delle toffolette abbrustolite sul bastoncino. 

 

Ma in Dorothy Draper, come in Spry e per certi versi nella nostra Colette Rosselli c’è anche un’altra cosa, una figura del tutto assente dalla manualistica ottocentesca che si concentrava sull’igiene della cucina e del bagno in casa per la neo-borghesia, ed è la donna sola, la padrona di casa priva di marito che, dopo la seconda guerra mondiale, di fronte a una società che tenta di rinchiuderla nuovamente nella casa di bambola, sceglie l’autonomia e si affida ai consigli di Elsa Maxwell, una che viveva sostanzialmente in albergo e degli inviti altrui, Aristotele Onassis compreso, per trasformarsi in una celebrata “hostess” anche senza il becco di un quattrino e un uomo a preservarne la virtù.

 

È a quel punto, e in parte lo è tuttora, che sui manuali di bel ricevere va profilandosi il problema del numero degli ospiti. Come organizzare party e pranzi di successo nel bilocale di Holly Golightly e senza un marito a tutela? Ed ecco allora l’immagine del mobile bar a parete, che si apre come il letto dei film di Castellano&Pipolo con Renato Pozzetto, ma anche i riferimenti dotti a madame du Deffand, anfitriona di genio, che in una lettera a Horace Walpole limita il numero dei commensali ideali a “cinque, sei o sette: come dicono le Preziose, più delle Grazie e meno delle Muse”. Vale per tutto, naturalmente, e soprattutto per il numero delle portate. È dal Cinquecento che, scrivono i manuali, si sono “di molto ridotte le portate”. Forse l’ultimo ospite degno del nome è stato appunto Anfitrione quando riceveva con Alcmena o Eliogabalo prima di farsi prendere dal vizio di ammazzare i propri ospiti. Certo è che adesso con due portate, un’insalata e il dolce si è a rischio di eccesso. “Detesto il bizbuz”, scriveva Marlene Dietrich nei primi anni Sessanta: “L’ho aggiunto al mio vocabolario dall’ebraico, perché suona meno colpevolizzante di spreco”. 

 

Lo stile era già cambiato. Ci sarebbe stata una sospensione negli Ottanta del risotto in foglia d’oro di Gualtiero Marchesi. L’altro giorno il Tg2 sottolineava che i menu creativi di avanzi, frittata di pasta napoletana in testa che peraltro è difficilissima da fare, sono il massimo dell’eleganza. A ragione. Non a caso, l’ultimo panettone in foglia d’oro e brillanti ordinato da un pasticcere italiano reca la firma di un magnate russo. Esattamente il genere da cui nessuno, per il momento, accetterebbe una fetta di panettone.

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