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un mondo per pochi

La tragedia dei ventenni di oggi che non possono godersi la solitudine

Costantino della Gherardesca

Lo star da soli ha permesso alle vecchie generazioni di affrontare la precarietà dei tempi: impossibile all'interno di un sistema sovraffollato e in cui anche le sottoculture non possono prescindere dal consenso

Della mia esperienza di universitario in Inghilterra mi resta soprattutto una cosa: aver compreso la selezione naturale. Gli studenti che, a differenza di me, capivano tutto al volo avevano vita facile: questi geni venivano subito individuati dall’università, che li piazzava su un fast track verso l’eccellenza, gli assegnava un ufficio e in poco tempo diventavano ricercatori a tutti gli effetti. Noi comuni mortali, invece, dovevamo accettare la nostra manifesta inferiorità e accontentarci di capire il 20 per cento di quel che i professori dicevano. Nessuno di loro si preoccupava di fare un passo verso di noi, il loro obiettivo non era istruirci, formarci: continuavano a parlare davanti ai nostri sguardi persi nel vuoto, una comunicazione a senso unico. Che differenza c’è tra andare ad ascoltare una lezione incomprensibile e restare a casa a guardarsi un documentario? Nessuna. Almeno il documentario lo puoi stoppare, rimandare indietro, riguardare. E puoi guardartelo da solo, non in un’aula con altre quaranta persone.

 

Per uno come me, l’unico modo per provare (inutilmente) a rimettersi in pari con l’élite dei cervelloni era partecipare agli incontri con i tutor, dei corsi in cui noi normodotati eravamo suddivisi in gruppi più piccoli e controllabili. L’iniziativa era anche lodevole, ma i libri richiesti per queste lezioni erano introvabili in biblioteca e andavano recuperati in libreria a carissimo prezzo. E così anche in questi incontri a cerchia ristretta si ripeteva più o meno la dinamica della lezione vera e propria: venivi esposto a un continuo flusso di informazioni, ma non eri sufficientemente seguito, istruito, educato… per quanto un tutor potesse metterci l’anima, era difficile recuperare terreno in quelle poche ore: di lezione in lezione, il divario tra studente normale e studente genio diventava sempre più incolmabile.

 

Pensiamo però a John Stuart Mill, un filosofo del XIX secolo che, ancora oggi, è considerato una delle menti più fertili e agili della storia dell’umanità (si stima che avesse 200 di Qi, il massimo). La genialità di Mill non è un caso: fin dalla più tenera età era stato rigorosamente seguito dal padre James (anch’egli storico, economista, politico e chi più ne ha più ne metta), che per lui ideò un percorso di studi molto duttile, plasmato sulle esigenze specifiche del ragazzo, sui suoi interessi del momento e più in genere – come direbbe un bravo psichiatra – sul suo modo di vivere.
Sono anni che Galimberti ci ricorda che nelle classi ci sono troppi studenti: un insegnante non può seguire l’educazione di una platea di venti, trenta ragazzini. Durante la pandemia tante famiglie hanno potuto constatare il problema con i propri occhi, perché la didattica a distanza ha acuito le differenze tra gli studenti autosufficienti (o molto seguiti dai genitori) e quelli che non lo sono: Zoom va bene per un biologo marino di cinquant’anni che tiene una videoconferenza dalle Galapagos, non per un bambino di Rozzano che deve imparare le tabelline e a relazionarsi con gli altri.

 

Sostituire un percorso di istruzione e formazione con una semplice offerta di contenuti è un sistema fallimentare, perché amplifica le differenze sociali (una capra seguita personalmente da James Mill avrà sempre più probabilità di un ragazzo abbandonato a se stesso) e disordini comuni come l’Adhd. L’idea che una lezione seguita passivamente al computer possa sostituire, soprattutto per gli studenti più giovani, il ruolo di un insegnante è folle: la memoria non può essere completamente delegata alla tecnica. Mi fa pensare a quei tassisti che, dopo anni di lavoro, guardano il navigatore anche se gli chiedi di portarti al Four Seasons.
Nei miei scapestrati vent’anni, quando volevo approfondire un mio interesse, mi isolavo e creavo una nicchia di Vhs di John Waters, dischi dei Whitehouse e Marlboro Lights in cui sentirmi a casa. Oggi, invece, anche le sottoculture non possono prescindere dal consenso, quindi i ragazzi non possono nemmeno godersi la solitudine. Quella stessa solitudine che ha permesso a noi Gen X di sviluppare la scorza necessaria ad affrontare la precarietà dei nostri tempi. Per via della loro educazione, non ne sono capaci.

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