Giulio Romano, “Allegoria dell’immortalità” (ca 1540), via Wikimedia Commons 

Epoche

Nell'Antropocene. Discorso sull'egocentrismo di intestarsi un'èra

Antonio Pascale

Immersi nel sogno di creare un Paradiso terrestre in Terra, non accettiamo la mortalità e questo ha un impatto sul pianeta. Ma è poi così brutto il mondo che abbiamo costruito? Una riflessione scaccia ansie

Dopo che mi sono beccato a metà luglio la Sars-Cov-2 e dopo i classici 10 giorni di isolamento, confesso, mi sono distratto. Rilassato com’ero (dai è andata bene, viva i vaccini), non ho fatto caso ad alcune notizie virali, nel senso che parlavano di virus e affini. Così, quando mi sono ripreso dalla distrazione e si era ormai a inizio agosto, mi sono ritrovato a leggere news riguardo il vaiolo delle scimmie, il morbo egiziano, l’Usutu sardo e il Langya henipavirus. Aggiungo che, a parte il vaiolo delle scimmie, per le altre malattie virali ho dovuto consultare fonti specifiche, molto tecniche e poi nemmeno sapevo scrivere Langya henipavirus. Non devo essere il solo, visto che il sistema di ricerca automatico di Google non lo dava tra i prime cinque risultati (c’era Langhe, Noa Lang, Land Rover, Lanzarote).

 

Mi ero rilassato, ma mi sono trovato in uno stato ansioso per pandemie prossime sulle spalle, ma anche per cataclismi, apocalissi che si dovrebbero compiere nel giro di sette anni. Sono in buona compagnia, temo. Gran parte della generazione 00 nemmeno ha raggiunto la maggiore età e già si trova con un carico di ansia, nonché un pesantissimo passato di colpe che chissà come potranno essere emendate. In genere poi queste notizie virali erano/sono accompagnate da riflessioni sulla natura: noi umani la stiamo o staremmo strapazzando. Il che è un altro carico di ansia. Non che sia scettico sul cambiamento climatico (no no, per niente) o su alcune pratiche insensate, come l’immissione senza colpo ferire di quantità eccessive di CO2, la deforestazione spinta in alcune regioni del mondo, l’ascesa di megalopoli che andrebbero studiate a fondo per gestirle poi con la massima razionalità (e sostenibilità possibile).

 

Invece di paralizzarci per troppe ansie, riconosciamo il problema fondante della nostra natura? Siamo mortali

 

L’eccessiva lavorazione dei terreni che sta portando solo a un preoccupante abbassamento dello strato arabile e fertile. Davvero, tutt’altro, ne faccio solo un problema di narrazione. Si spinge troppo sull’ansia e poco sulla comprensione delle dinamiche naturali. Si invocano rimedi ma non si conosce davvero come il mondo funzioni. Ne viene fuori una narrazione poco realistica, tutta spinta sui buoni propositi e che tuttavia ci abitua al rimedio della nonna e ci disabitua al compito più impegnativo: affrontare con serietà i problemi. Che poi è un problema umano. La qualità delle nostre storie, dico. Cosa siamo noi umani se non delle storie ambulanti? La nostra coscienza è un generatore automatico di storie. Il nostro cervello è programmato non per capire la verità, l’essenza delle cose, l’essere e altre simili spericolatezze del pensiero buone per alcuni titolati e oscuri filosofi.

 

Il nostro cervello è programmato per far tutto tranne capire se stesso. Un altro grande paradosso

 

No, il nostro cervello è programmato per far tutto tranne capire se stesso – altro grande paradosso, del resto nemmeno Socrate e Platone con lui la facevano facile col conosci te stesso. Si è evoluto e perfezionato per sopravvivere. Per farlo, molto spesso e molto astutamente deve ingannare se stesso. L’autoinganno aumenta la fitness. Vuoi mettere un cervello che guarda il mondo e pensa: ma è tutto assurdo, non ha senso, e poi morirò, tutti noi moriremo. Un cervello siffatto che sente l’angoscia di certe notti o di alcune albe sgraziate che nemmeno Kafka con tutto il suo genio crudele e poetico è riuscito a restituire, un cervello siffatto vedrebbe, realizzerebbe la verità, l’essenza o l’essere che dir si voglia: siamo degli zombie, con poco, scarsissimo libero arbitrio, burattini mossi da forze che non controlliamo. Un cervello così, dotato di intensa percezione e scarso autoinganno, avrebbe buone possibilità di sopprimersi. Perché giudicherebbe la vita una non vita. Roba che solo pochi, estremamente sensibili e con tristi conseguenze, hanno avuto il coraggio di dichiarare.

 

Vedi Carlo Michelstaedter (che provate a cercarlo con la ricerca automatica di Google, non è nemmeno fra i primi 10) che l’ha detto a chiare lettere con “La Persuasione e la Rettorica”, sua potentissima tesi di laurea non discussa, causa suicidio del ragazzo ventitreenne. Roba che Philipp Mainländer (la ricerca automatica langue proprio) ha messo sulla pagina con spudorata e strafottente forza argomentativa, cosa altro è la filosofia della redenzione se non lo svelamento della grande verità: siamo nulla e sapete che c’è, meglio così, il nulla è meglio di qualcosa! Nonostante gli anni napoletani (ove Philipp Mainländer impara l’italiano, legge i trecentisti e Giacomo Leopardi nostro), che in genere fanno felici tutti per abbondanza di colore e spensieratezza.

 

Nonostante lavorasse in banca e ci avesse provato a fare i soldi ma si sa, il caos finanziario è così difficilmente prevedibile (andò in rovina). Insomma, Philipp Mainländer nella filosofia della redenzione non solo dichiarò con spregio del pericolo che la non vita è meglio della vita (non essere è meglio di essere), ma usò le copie della sua filosofia della “Redenzione”, fresche fresche di stampa, come piedistallo. Poi ci salì su e si impiccò: trentacinque anni. Lo so, sembrano casi umani, cittadini depressi, unicum che vanno isolati. Eppure, metti le neuroscienze, metti la psicologia cognitiva, a forza di studiare il cervello si sta capendo che in effetti la nostra materia grigia è soggetta ad autoinganni: non vuole vedere il peggio, altrimenti non vive.

 

Raccontiamo male la natura e ultimamente ci diamo molto da fare con un concetto ancora ambiguo: l’Antropocene

 

Vivere significa non vedere la tragica realtà della natura umana. Per questo inventiamo storie: noi siamo un libro ambulante, spesso scritto veramente male (e per questo bisognerebbe leggere libri ben scritti e per questo i libri ben scritti sono rari: sono rischiosi, per chi li scrive e per chi li legge). Raccontiamo e ci raccontiamo storie. Raccontiamo male la natura e la natura umana, senza coraggio, senza profondità, e ultimamente ci diamo molto da fare con un concetto ancora ambiguo, non da tutti accettato e cioè l’Antropocene. È come un passe-partout che ti accredita, diventi un autorevole costruttore di pace e di sostenibilità. Ma la natura è complicata. Metti le future pandemie, tanto per riallacciarsi ai virus sopra citati: il vaiolo delle scimmie, il morbo egiziano, l’Usutu sardo e il Langya henipavirus.

 

Per ragioni che le dinamiche darwiniane spiegano, nessuno riesce a calcolare e prevedere e stimare la pericolosità delle epidemie prima che siano finite. Purtroppo, è anche un problema di algebra comune, il numeratore lo puoi conoscere con esattezza, ma a meno che non conosci anche il denominatore con uguale grado di certezza, il risultato che ne esce fuori è incerto: bisogna aspettare. Un bel controsenso per noi umani che antropocenicamente crediamo di essere responsabili di tutto. Dunque, capaci di controllare tutto. Certo, il miglior investimento è sempre uno solo: la vaccinazione. Prendete i dati sulla poliomielite. Nel 1985 c’erano ancora 400 mila casi al mondo, nel 2000 erano 100, nel 2016 37, ma vivevano in quelle regioni non proprio pacifiche (nord della Nigeria, Pakistan e Afghanistan).

 

Natura e natura umana vanno insieme, è questo il problema e questa è la bellezza e questa è anche la contraddizione insanabile. Quando raccontiamo la natura prevale in noi un semplice lascito romantico. I romantici la natura la invocavano. In genere erano ricchi di famiglia e potevano inoltrarsi per i boschi, salire sulle cime montuose diventando soggetti ideali per paesaggi nella nebbia. Però la natura mica la conoscevano bene. La usavano invece per rafforzare le loro tesi. Non erano naturalisti, non certo alla Darwin. Anche il nostro Ugo Niccolò Foscolo, giusto per fare un esempio, quando in pena per Teresa se ne va sui Colli Euganei e descrive una tempesta, mette tutto dentro, come in un contenitore, vento, fiere, selve, un turbinio degno dell’apocalisse e voglio dire stava su una collina, al massimo 600 metri, non certo su una catena montuosa.

 

L’idea di natura che i romantici ci hanno lasciato era quella di una dimensione tempestosa o incantata, scrigno di chissà quale segreto. Rievocava il giardino dell’Eden, potenza in fieri, manifestazioni di misteri da accogliere, comunque da descrivere per sommi capi, non certo da indagare in profondità, tutt’altra cosa del lavoro dei naturalisti, geologi, biologi, botanici, agronomi. Una natura perduta, rovinata. Il responsabile? Ovvio, noi, chi altro sennò? Quella perdita ci appesantisce di una colpa, di un peccato: per colpa nostra non siamo più immortali. Ah, se potessimo riavere quel giardino, qui e ora sulla Terra. Sentite un po’ di Antropocene? Vogliamo essere immortali, impattando per l’eternità sulla Terra.

 

Spesso nel concetto di Antropocene c’è in evidenza un istinto fortissimo di vivere e vivere ancora vivere. Cosa naturale, ovvio. Ma non è proprio la nostra voglia di vivere a fare danni? Se coscienti dei pericoli dell’Antropocene avessimo lavorato per l’estinzione? Se avessimo bruciato le principali scoperte mediche e quelle della microbiologia? Se avessimo impedito la produzione di vaccini e antibiotici, se mangiassimo ancora come un tempo, senza concimare, irrigare, proteggere la pianta? Pensate se avessimo ucciso Haber-Bosch e impedito la sintesi dell’ammoniaca, ecco saremmo ancora come a inizio Ottocento un miliardo scarso di cittadini, di cui l’85 per cento fatto di contadini analfabeti con l’aspettativa di vita intorno ai 35 anni. E il resto ricchi, mercanti e preti che si spartivano la torta. E prima o poi saremmo finiti in una strettoia, in un cul de sac dell’evoluzione, ci saremmo estinti con grande gioia sia di alcuni pessimisti radicali che vedono nell’antinatalismo una soluzione, sia per il pianeta intero che, chissà, magari diventava più vivace.

 

Anche se non è scontato che quel pianeta senza l’uomo avrebbe visto gli orsi amici dei salmoni e le tigri vegetariane. Non è scontato insomma che in assenza dell’uomo sia garantito il paradiso terrestre, dove tutti sono amici di tutti e la pace sia con noi. Invece, e questo è un aspetto della natura umana che va considerato, noi vogliamo vivere e inventiamo rimedi per prolungare la vita. Non accettiamo la mortalità e questo ha un impatto sul pianeta. Una qualità della natura umana, del resto, è proprio la conoscenza, l’altra faccia di quel pessimismo radicale di cui sopra. Proprio perché è tutto insensato, proprio perché all’essere è strettamente, irrimediabilmente associato il non essere, ci conviene trovare rimedi, oltretutto danno senso alla vita. Cosa altro è l’Antropocene se non la ribellione contro quella natura che ci ingabbia? È davvero un mondo pessimo quello che abbiamo costruito a partire dal 1880? Un mondo in cui vivono otto miliardi di cittadini, certo tantissimi, impattanti.

 

Ma vivono essenzialmente perché le morti per malattie infantili durante l’infanzia – forse il destino più crudele del mondo moderno – sono ormai scomparse. Sono scomparse perché la natura umana animata dalla forza della conoscenza (altrimenti cosa resta se non lo spettacolo della nostra desolazione da zombie) ha reso l’acqua potabile più pulita, l’alimentazione più ricca, varia e sicura, ha messo a punto un’adeguata profilassi sociale e un’igiene adeguata. Quei bambini che non sono morti sono il risultato dei nostri rimedi e sono diventati grandi. Se si fa l’appello ci sono anche io. Tutti voi e i 4 miliardi che sono arrivati negli ultimi anni e altri due miliardi che attendono di arrivare. Non si può parlare della natura senza parlare della natura umana e dei rimedi che essa ci fa trovare alla natura stessa.

 

Sono rimedi sviluppati, esplosi, moltiplicati durante l’Antropocene. Però è vero che otto miliardi impattano e rovinano il giardino. E i dieci miliardi di cittadini previsti da qui al 2050 potranno fare peggio – ma i demografi indicano nel benessere crescente e nella decrescita inesorabile della popolazione un rimedio, come dire, naturale. Ce ne andremo, probabilmente spegnendoci lentamente, un giorno dopo l’altro, nei secoli dei secoli. Abbiamo due scenari davanti. Il primo è quello spirituale, espresso in modi sopraffini da Andrej Tarkovskij e compagnia: conoscere significa vedere la nostra essenza di zombie senza Dio. Non solo, anche avvicinarci a indovinare la data della propria morte, inaridire tutto. Meglio arrendersi al mistero. Nella resa c’è la bellezza, quella della natura soprattutto. Oppure pensare che l’Antropocene non rappresenti la fine dell’umanità.

 

Potrebbe essere il rimedio – maggiore conoscenza uguale soluzioni nuove. Forse con l’Antropocene stiamo uscendo dalla bolla dell’Olocene che ha plasmato la nostra cultura, il nostro pensiero e stiamo avviando un esperimento di cui ignoriamo la portata. Magari attraverso una conoscenza meno grezza e più raffinata delle dinamiche della natura ci aspetta un mondo più sano. A costo di sfidare il mistero e conoscere la data della nostra morte, sarei per la conoscenza e nemmeno mi precipiterei a dichiarare con l’ansia dei primi che abbiamo aperto l’Antropocene. E poi, c’è qualcosa di poco convincente, di arrogante nel dichiararsi creatori di una nuova èra geologica.

 

Visto che anche le precedenti sono durate parecchio, tanto per dire sono passati 66 milioni di anni dall’èra Cenozoica. Se siamo nell’Antropocene questa èra potrebbe essere iniziata 10 mila anni fa, se consideriamo la più grande e perturbante rivoluzione, quella agricola. Oppure da un secolo e mezzo fa, da quando cioè si è diffusa la combustione dei combustibili fossili. Aspetterei, insomma. Se solo riuscissimo a vivere altri mille o diecimila anni, allora forse in un convegno del futuro potremmo congratularci con noi stessi di essere vissuti così tanto e imparato (tramite indefessa e scientifica conoscenza) a consumare e produrre meglio.

 

Nel concetto di Antropocene c’è un istinto fortissimo di vivere e vivere ancora vivere

 

Allora sì, potremmo dire di aver dato un nome a un’epoca geologica: nel frattempo invece di paralizzarci per troppa ansia e sensi di colpa e responsabilità per ogni peccato, che ne dite di riconoscere il problema fondante della nostra natura? Siamo mortali – e per citare Guccini nostro, il vizio che ci ucciderà non sarà fumare o bere ma vivere e ancora vivere. Potremmo in questo modo provare a costruire città belle che ci sopravvivono perché meno impattanti. Posti puliti, illuminati bene dove baristi coscienti che al di fuori non c’è nada e poi nada, ci offrano da bere e accolgono i nostri corpi stanchi, il tempo necessario che passa tra un primo vagito e un saluto definitivo.

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