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Antropocene

Geoingegneria solare: la mano dell'uomo sull'ambiente

Francesco Chiamulera

Elizabeth Kolbert, premio Pulitzer e autrice del New Yorker. La sua opinione su quello che accadrebbe se gli esseri umani volessero riparare il clima che hanno stravolto

Per fermare lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento delle temperature, sparare nella stratosfera gigantesche nubi di microparticelle, che intercettino la luce solare. Con una piccola controindicazione: il rischio di vivere sotto un cielo che perde per sempre il suo azzurro e si fa eternamente lattiginoso. E poi: selezionare un supercorallo che resista ai mari sempre più caldi e più acidi, elettrificare un fiume, riprogettare specie animali. “Se tutto questo mi affascina o mi fa più paura? Alla fine non lo so davvero. Ma il paradosso dell’Antropocene è la ricerca di soluzioni tecnologiche a problemi creati da chi cercava a sua volta soluzioni tecnologiche a problemi precedenti”. Messa così può sembrare astrusa. Eppure quella di Elizabeth Kolbert non è che la fotografia del rapporto tra umanità e ambiente nella sua contraddizione, e nella sua urgenza impellente. 

 

Autrice di La sesta estinzione, che nel 2015 le è valso il Pulitzer, autrice per il New Yorker, Kolbert risponde al Foglio a una domanda che i giornali italiani (ancora) non le hanno fatto, e che segue il filo brillantissimo e sorprendente del suo ultimo libro, Sotto un cielo bianco, appena uscito in Italia con Neri Pozza: ha un senso continuare a ragionare di natura che si ripara da sé, magari grazie a una repentina uscita di scena dell’uomo, che chiude la porta sulle modifiche impresse in migliaia di anni dicendo: scusate, non lo farò più? Ha senso coltivare ideali romantici di paradiso restituito, mentre la compromissione dell’ecosistema già mostra che abbiamo raggiunto un catastrofico punto di non ritorno?

 

Mentre la tragedia della Marmolada congiura con la siccità nel suonare la sveglia del tempo che è finito, Kolbert fa un inventario delle soluzioni più estreme, ardite, audaci, impensabili, pericolose (e francamente spaventose) che la ricerca sta già contemplando per correre ai ripari. “Credete davvero che l’esercito statunitense o quello cinese non ci abbiano pensato? Ma per favore! Hanno inseminato le nuvole per favorire le precipitazioni. La gente dovrebbe smettere di chiedersi se approva o meno la geoingegneria solare, se ritiene opportuno che venga utilizzata o no. Quello che deve capire è che non possiamo scegliere. Se sei un leader mondiale ed esiste una tecnologia in grado di eliminare la sofferenza o di ridurla, dovresti essere fortemente tentato di implementarla”. A parlare qui non è Kolbert ma Dan Schrag, direttore dell’Harvard University Center for the Environment.

 

“L’idea di tornare a una sorta di passato bucolico, pastorale, mentre sul pianeta ormai vivono otto miliardi di persone”, ragiona Kolbert, “è ovviamente una fantasia. Ma è una fantasia ostinata, alla quale ci attacchiamo un po’ disperatamente. Ci sono luoghi negli Stati Uniti e perfino in Europa dove puoi illuderti di trovarti nella natura incontaminata, ma la verità e che questa wilderness ha smesso di essere tale migliaia di anni fa. L’abbiamo trasformata e ritrasformata”. L’intervento sull’ambiente come descritto da Kolbert ha un andamento che potremmo definire spiraliforme: a ogni modifica succede una contromodifica, che richiede una modifica ancora più impattante.

 

“Gli esseri umani hanno trasformato direttamente più della metà della superficie terrestre libera da ghiacci, e metà di ciò che resta in modo indiretto. Abbiamo arginato e deviato la maggior parte dei principali fiumi. Le fabbriche di fertilizzanti e le coltivazioni di legumi fissano nel terreno più azoto di tutti gli ecosistemi messi insieme, aerei, auto e centrali elettriche emettono una quantità di anidride carbonica quasi cento volte maggiore rispetto a quella prodotta dai vulcani. Nell’Antropocene non esiste luogo che non rechi l’impronta dell’uomo. Quando parliamo di ciò che è successo sulla Marmolada, ad esempio, sappiamo che la differenza tra acqua e ghiaccio è minima in termini di temperatura, ma enorme nelle conseguenze: sul ghiaccio si cammina, sull’acqua no. Nel passaggio da uno stato all’altro possono verificarsi terribili sconvolgimenti. A fronte di tutto questo, ci sono persone che stanno cercando di risolvere problemi creati da altre persone che cercavano di risolvere altri problemi”. 

 

Sembra folle? Forse lo è. Ma pensate per un attimo al dilemma del medico Rieux nella Peste di Camus: lottare per estirpare la malattia di oggi non è assurdo, se si pensa che domani ne arriverà un’altra, forse peggiore, a prendere il posto lasciato libero dal morbo sconfitto? Certo. Eppure, come dire, abbiamo alternative?
Kolbert passa poi alla roba forte. Racconta degli ultimi progetti di geoingegneria solare, dove la messa al bando dei combustibili fossili già viene considerata insufficiente, preferendo l’intenzionale controllo umano dei cieli. Ebbrezza di hybris prometeica. Definita eufemisticamente “gestione delle radiazioni solari”, questa si basa sul principio che se le eruzioni vulcaniche hanno causato in passato interi inverni termici, quando non perfino piccole ere glaciali (l’ultimo, il 1816, “l’anno senza l’estate” causato dall’eruzione del Tambora che fornì a Lord Byron lo spunto per la poesia Darkness), allora perché non potremmo farlo noi stessi, magari mediante l’immissione di sostanze sparate da appositi velivoli? Tra i candidati, non è uno scherzo, ci sono la polvere di diamante, l’anidride solforosa e il carbonato di calcio.

 

E se è vero che tutto quello che si diffonde nell’aria prima o poi torna giù, dei tre quest’ultimo sembra quello dagli effetti collaterali meno spaventosi. Si ricordi che lo sforzo è di evitare mali peggiori, come la scomparsa di intere specie viventi. 
“Penso che sia del tutto possibile che presto considereremo di nuovo tali audaci modifiche come accettabili, almeno come oggetto di discussione”, dice Kolbert al Foglio. Intanto, il dilemma resta. E Kolbert non regala lieti fini, ma un’allegra passeggiata nel rischio di un inferno climatico. “Supponiamo che si spedisca domani in cielo una flotta di aerei mandati a ‘sbiancare le nuvole’. E supponiamo che mentre quei velivoli stanno scaricando tonnellate di particelle, le emissioni globali continuino ad aumentare. Il risultato non sarebbe un ritorno al clima dell’era preindustriale o dell’Eocene, quando i coccodrilli si crogiolavano sulle sponde dell’Artico, ma a un clima senza precedenti, in un mondo senza precedenti, dove le carpe argentate scintillano sotto un cielo bianco”.

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