ANSA/ UFFICIO STAMPA 

il caso

Memorie di goliardia: lo scherno come tradizione universitaria

Adriano Sofri

Dopo lo scontro fra Scuola Normale e Sant’Anna su nonnismo e omofobia. Scherno e violenza. La matricola in cima all’armadio, le secchiate d’acqua, le flessioni e altri riti iniziatici. Per qualcuno fu una tragedia

"Pisa, guerra di gavettoni tra Normale e Sant’Anna: polemica per i cori omofobi”. I normalisti hanno accusato di omofobia e nonnismo i rivali santannini che si sono difesi affermando che ‘cori di scherno irriverenti fanno da sempre parte della goliardia di per sé sopra le righe’”. 

 

La tradizionale sfida goliardica tra le due scuole accademiche di eccellenza di Pisa, la Sant’Anna e la Normale, diventa un caso. Sabato sera gli studenti delle due istituzioni si sono “sfidati” a colpi di gavettoni e cori, una battaglia che ha luogo da sempre, sospesa soltanto l’anno scorso a causa del Covid. Due cortei hanno sfilato per le vie del centro di Pisa con cori, tamburi, e “armi” artigianali costruiti da fisici e ingegneri. Ma stavolta la battaglia ha preso una brutta piega e si è trasformata in uno scontro di parole sui temi dell’omofobia e del nonnismo. I normalisti hanno accusato di omofobia e nonnismo i rivali santannini i quali si sono difesi affermando che “cori di scherno irriverenti fanno da sempre parte della goliardia di per sé sopra le righe, loro semmai sono violenti visto che hanno colpito con un pugno un nostro collega”

(Dal Corriere della Sera, 8 novembre).

   

Il Sant’Anna non c’era ai miei tempi, c’era, accanto alla Normale, il Collegio medico-giuridico, e il Pacinotti, per l’Economia l’Ingegneria e l’Agraria. Sfide di gavettoni non ce n’erano. La Normale e il mondo esterno erano davvero un’altra cosa, e aiutano poco a capire quello che passa oggi.
Tuttavia alcuni anni fa mi era capitato di ripensarci, dopo che il Corriere e La Provincia pavese si erano riempiti di racconti di vessazioni e tormenti inflitti alle matricole nel prestigioso collegio universitario di Pavia, il Borromeo. Nel 2015 una pratica corrente, a quanto pareva, la chiusura di una matricola dentro un armadio con le ante addossate al muro, si era tradotta in un malore del giovane e un’inchiesta per sequestro di persona e violenza privata nei confronti di quattro presunti autori, espulsi dal collegio. Un quinto “anziano”, indagato anche lui per violenza, avrebbe “cosparso di deodorante le mani di una matricola di Medicina, dando fuoco ai peli con un accendino”, e “avvicinando agli occhi del malcapitato una lama arroventata”. Dopo di che un ex allievo, poi dottorando negli Stati Uniti, aveva riferito minuziosamente di soprusi di cui era stato vittima o testimone, compresi i “celebri bigné imbottiti di sperma dati in pasto ad allievi del Borromeo nella primavera del 2010, la pasta condita con scarafaggi, sino alle sessioni notturne in cui gli studenti obbligano altri studenti a denudarsi” (per i bigné ci furono due espulsi). “Mentre frequentavo il quarto anno almeno tre ragazzi abbandonarono il collegio durante il primo anno”.

  

Giancarlo Schizzerotto (1938-2012) è stato un tipo formidabile di studioso, specialmente di cose classiche e medievali, e un uomo di implacabili amicizie. Diresse biblioteche come la Classense di Ravenna e la Teresiana di Mantova, e disseminò la sua bollente erudizione in una miriade di interventi pubblici e privati. La sua opera maggiore, che non vide pubblicata, si intitola “Sberleffi di campanile. Per una storia culturale dello scherno come elemento dell’identità nazionale dal Medioevo ai giorni nostri” (Olschki 2015). È un repertorio ragionato dei modi presi dallo scherno, il ludibrio, il vituperio, il dileggio, e insomma le manifestazioni di derisione, in cui, per ingegnosità e virulenza, l’autore segnala un tratto essenziale e costante della vita civile, e incivile.

  

“… la categoria dello scherno è un archetipo culturale, fiorente nei più diversi climi, tempi e luoghi, variando certo nei modi e forme di espressione… pur restando fermo che certe epoche e nazioni vi sono genialmente più predisposte, come abbiamo accertato per l’Italia medievale, in specie per la Toscana”.

    

Esibizioni di culi denudati; bacio delle terga; gesti di scherno – “le fiche”; iscrizioni sui proiettili dei frombolieri – “Ecco uno zuccherino” – come sui moderni bombardieri; capigliature femminili e barbe maschili rasate per mortificazione; i “panni scorciati”, vesti femminili tagliate per lasciare scoperte le parti sotto la cintola; cadaveri di asini catapultati per spregio e per infettare dentro le città assediate o dalle mura addosso agli assedianti; animali tormentati e impiccati; cortei umilianti di prigionieri e bandiere nella polvere; cavalcate forzate alla rovescia, impugnando la coda dell’animale; palii dello scherno; visi incappucciati e deretani scoperti – come ad Abu Ghreib…; impeciamenti, tinture del viso, pitture infamanti, cadaveri vilipesi, purghe (fino all’olio di ricino o, peggio, l’olio lubrificante fascista): a un passo dalle mutilazioni di mani e piedi, dai marchi d’infamia a fuoco, dalle orecchie i nasi e le lingue mozzate, gli occhi e i denti strappati, le galere orrende. 

 

“La documentazione da noi assemblata dei gesti di irrisione scambiati fra collettività, sarà da mettere utilmente in relazione con lo svillaneggiamento personale, proprio delle pene ignominiose punitive di certi tipi di reati, a opera dei pubblici poteri” .

 

(credo, per quel poco che so, che mai sia stata raggiunta una coincidenza vasta e spietata di derisione e di tortura come nella Grande Rivoluzione Culturale cinese. Inoltre, una riflessione aggiornata sul tema deve occuparsi di bullismo e gogna digitale, specialmente sulla pelle, a volte letteralmente, di ragazzine).

 

Fui, di pochi anni più giovane, compagno di studi di Schizzerotto alla Normale, al cui ricordo lui, antiaccademico com’era, rimase legato. Mi ha tanto più stupito che non abbia fatto uso per il suo argomento di una tradizione di beffe e ludibrio come quella praticata nel collegio pisano a spese e per iniziazione dei nuovi arrivati, matricole o anche studenti anziani o già laureati ma “esterni”. Anche Schizzerotto ne era stato protagonista, dai due lati della cosa – dalla cima dell’armadio sul quale la matricola veniva “interrogata” e riempita di secchiate d’acqua, o dalle sedie degli interroganti – ma nelle sue pagine la goliardia, evocata da altri, viene sempre accantonata con una specie di fastidio, come un fenomeno troppo più superficiale e grossolano, almeno nella versione italiana, rispetto alla profondità e durata dello scherno popolare, erede dell’età classica e però innovato e trionfante nel passaggio dal Medioevo alla modernità. Ovvero come l’alibi addotto dagli apologeti dello squadrismo, le cui gesta violente venivano ricondotte alla “beffa goliardica, crudele come tante altre cose della vita studentesca” (così un notabile fascista).

 

L’accenno alla Normale era solo allusivo. Mi è successo di ripensarci. Non trovo – se non per anni lontani, come nei ricordi su Enrico Fermi, normalista dal 1919 al 1922 – riflessioni di ex normalisti sul trattamento delle matricole, e in genere dei nuovi arrivati (fossero anche laureati “perfezionandi”). Può darsi che dipenda dal sentimento di nostalgia che gli ex normalisti per lo più coltivano nei confronti degli anni di studio, e fa prevalere il ricordo della convivialità e della conversazione fra discipline diverse, fra docenti e allievi, fra anziani e giovani (parlo della Normale com’era, con un numero molto più ridotto di allievi – una quindicina all’anno – e la vita comune nei locali del Palazzo dei Cavalieri). E orgoglio e sussiego normalistici persuadevano che i riti di iniziazione delle matricole fossero tutt’altra cosa, ben più sofisticata e intelligente, dalle grossolanità goliardiche della ordinaria università: dalle quali gli “anziani” normalisti badavano a esentare le matricole della scuola, loro riservate. Un illustre maestro di filologia e di umanità, Giorgio Pasquali, scrisse nel 1950 un “Biasimo della goliardia” per la rivista Belfagor, che si concludeva proprio contrapponendo la goliardia al costume dei collegi, che per lui erano la Normale di Pisa e il Ghislieri di Pavia: 

“Qui la distinzione tra matricolini, fagioli / studenti del secondo anno /, anziani, o comunque si chiamino, che tra gli studenti esterni ha effetti pratici soltanto nel giorno delle matricole, acquista valore. In un collegio che conosco / la Normale, dove insegnava /, anziani e fagioli si sono addossati il carico di addestrare ciascuno un matricolino nell’uso della biblioteca e nella bibliografia elementare della materia… I provetti forniscono ai compagni più giovani durante tutto il prim’anno indicazioni su come disporre gli studi, come studiare ciascuna materia, quali temi più accessibili a loro affrontare, quali letture premettere alle altre; sono insomma una specie di direttori di studi per ragazzi che non osano ancora accostarsi al professore e per ognuno dei quali il professore ha naturalmente meno tempo. Se questa è goliardia, pare a me esemplare, e, perché mossa da amore, ideale, e non mi urta che un anziano si faccia portare dal matricolino la prima colazione a letto dopo la notte, passata in gran parte, come usa là, studiando, o mandi il novellino dal tabaccaio per comprargli le sigarette che egli, per resistere alla tentazione di fumar troppo e spendere troppo, acquista non a scatole ma a tre o quattro per volta. Il principiante deve questo e molto più all’anziano che gli spiana la via e che, come capita in quel collegio, ha disumanamente troppo da fare. E non mi scandalizzo dei processi burleschi ai quali il novellino è sottoposto nel prim’anno innanzi Natale; e non piango per l’eventuale logorio della mobilia, quando al matricolino si “fa la camera”, cioè si smonta, si decompone un armadio in tutti i quarantadue elementi che lo compongono, e con mobili smontati si costruisce un cavallo di grandezza naturale con gli occhi luminosi che si aprono e si chiudono, quando si tira una cordicella. Ma mi dispiace quando lo scherzo traligna in sia pur lieve tormento fisico. In primo luogo io vorrei che tali scherzi si restringessero alla parte del corpo dalla cintola in su… E poi, ogni sofferenza di tal genere umilia, mortifica anche lo spirito…”.

  

L’appello all’habeas corpus era tanto più sentito perché Pasquali stesso non ignorava che negli “scherzi” una dose di tormento fisico entrava. A cominciare dalle flessioni – che in Normale erano più usate dei marziali piegamenti, e hanno qualcosa di anatide: si va su e giù sui talloni tenendo le braccia distese in avanti. L’anziano incontra la matricola e gli dice: “Cento flessioni!”, e non resta nemmeno a vedere se quello le fa, perché quello è così spaventato che le fa anche se nessuno vede, non si sa mai. 

 

Il rapporto che va dagli anziani alla matricola, dall’ingresso nella scuola a fine ottobre alle vacanze di Natale – poi le cose prendono un andamento più pigro – si chiama “fare il culo”. Lo si pronuncia come un’incombenza fra le altre: mangiare, dormire, uscire a prendere il caffè, studiare, andare al cinema, fare il culo. Naturalmente, l’origine fisica dell’espressione è tutt’altro che perduta. Le motivazioni di queste e delle altre espressioni e gesti sono largamente pretestuose. La prima è la necessità morale di far abbassare la cresta ai nuovi arrivati. I quali, avendo deciso di concorrere ai pochi posti in palio, sono mediamente dei primi della classe, e non di rado fregiati di voti smaglianti, di quelli menzionati dalle cronache locali; e una volta che il concorso l’hanno vinto, arrivano alla scuola più o meno trionfalmente, convinti di essere dei fenomeni. La messinscena dell’accoglienza iniziale esalta la convinzione: congratulazioni, esortazioni a raccontare i loro splendidi precedenti e i loro punti forti. Poi, di colpo, da quel cielo toccato col dito, la destituzione. La matricola sta mettendo fuori le sue cose dalla valigia ed ecco che arrivano. Gli dicono di salire sull’armadio e sedercisi. Lui ride, loro no, non ridono, lo insultano, gli ordinano di salire, sparpagliano le sue cose in giro. Un’altra matricola intanto va a riempire i secchi d’acqua (c’erano i bagni e i cessi in comune). Lui è salito sull’armadio, oscilla ancora fra mostrare di saper stare allo scherzo, provare a fare lo spiritoso, o prendere un’aria offesa e spaventata – è facile, è spaventato e offeso – o addirittura, la scelta più disastrosa, protestare. Arrivano già le prime secchiate. La cerimonia si chiama Interrogatorio. L’Interrogatorio mira a mostrare al primo della classe che non sa niente, che è saccente e presuntuoso, che è un infimo cretino: e naturalmente ci riesce. Quelli che interrogano, se non altro per la divisione del lavoro, sanno molto più di lui, e giocano in casa. Lui è affranto, tanto più che fra loro c’è qualcuno che poco fa gli era sembrato così amichevole e cordiale, e dunque è un traditore. A ogni risposta sbagliata – dunque a ogni risposta – secchiate d’acqua. Non di rado l’interrogatorio vira sui suoi trascorsi sessuali, o sulla sua competenza sessuale. Lui è già fradicio e avvilito, quando uno gli domanda, incazzato: “Che differenza c’è fra un canarino?” Il malcapitato non ha scampo, e a volte è così disorientato ormai da abboccare e chiedere: “Fra un canarino e che?…”. Secchiata. 

Ciascuno reagisce a suo modo, appollaiato sull’armadio. O quando ne scende, prova a rimettere insieme i resti della battaglia, e a dormirci sopra, almeno un paio d’ore, e già si sente addosso una febbre. Ce ne sono che all’indomani vorrebbero rifare la valigia e tornarsene a casa, al proprio paese, dove la cronaca locale li aveva fotografati dopo l’esame di maturità. Il giorno dopo, rientrano e trovano che la stanza non c’è più, cioè c’è, ma è vuota. Altre matricole l’hanno trasferita e rimontata: nel cortile – a volte, negli anni d’oro, addirittura nella piazza dei Miracoli. Deve recuperare tutto e ricominciare, come Sisifo. Si chiama “fare la stanza”, rientra nel “fare il culo”. Negli intervalli, “fa’ cinquanta flessioni”. Oppure anche “Fatti una sega”: uno passa, e li trova che provano davvero a farsela, con una faccia mogia, e gli dice: “Ma che cazzo fai?” “Me l’ha detto…”. “Coglione! Fai cento flessioni!”. 

 

Dalla fine di ottobre alle vacanze di Natale – poi la cosa non finisce, ma si placa: bisogna pur studiare, e poi di tutto ci si stanca, e gli anziani sono divisi fra loro, e si comincia a fare amicizie, e il piacere del tormentatore comprende spesso il piacere dell’indulgenza, della benevolenza – non è tanto tempo: nemmeno poco. Qualcuno cede, qualcuno si batte fieramente, tutti hanno preso una botta. Il prossimo anno, toccherà a loro infierire sui nuovi: a infierire infatti sono soprattutto i fagioli, quelli del secondo anno, si capisce. Non sempre. 

 

Quando fu il mio turno, fui dei più stronzi, finché mi durò – non a lungo. Avevo avuto un vantaggio all’arrivo: ero cresciuto in un ambiente militare, ed ero stato preceduto da un fratello normalista. Ero avvisato. Avevo deciso di fare resistenza, di sfidare le persecuzioni: mi costò, ma me la cavai. Trovai alleati negli anziani fini contro gli anziani bruti, e anche nelle ragazze, che vivevano altrove la notte, cioè nelle ore decisive, ma un po’ contavano. L’anno dopo, dei miei compagni di corso, uno specialmente si fece paladino delle matricole, con una certa affidabilità, perché vantava un’adolescenza di boxeur: Umberto Carpi, comunista perentorio e illustre italianista, poi parlamentare e anche membro del governo italiano, amico, è morto nel 2013. Altri si guardarono dal vessare le matricole, per personale mitezza e moralità. Altri – eravamo sette, della classe di Lettere e Filosofia - le vessarono, ma con un certo disgusto. Ho comunque memoria di allievi, di allora e dopo, matricole o nuovi arrivati già “anziani”, per i quali quel passaggio fu una tragedia. Più deboli, forse, migliori certo. Qualcuno avrebbe lasciato la scuola. Qualcuno, forse, si suicidò.