Mabel Amber (Pixabay)

Sono nato senza un ampio dibattito, i miei genitori asserviti alla generosità

Maurizio Maggiani

Sono venuto al mondo senza un perché da dirsi, e trovo che sia una buona ragione, che soggiace a ogni altra possibile e dicibile, e riguarda il mandato genetico di ogni essere e ogni specie: generare

Perché sono nato? Già, perché? Ho settant’anni, sono figlio di un operaio e di una contadina, e sono nato nella vecchia casa di un’ampia famiglia allargata, sono cresciuto assieme a quattro generazioni. Sono un primogenito tardivo, alla mia nascita mio padre aveva ventotto anni e mia madre ventisei, perché prima di concepirmi i miei genitori hanno preso alcune precauzioni che ritenevano essenziali, ad esempio rattoppare la casa che ancora portava i segni delle battaglie sulla Linea Gotica e ampliarla di una stanza, trovare un lavoro per procurarsi un corredo e poter firmare le cambiali per acquistare i mobili della stanza dove mia madre mi ha partorito, quelle cambiali hanno finito di pagarle intanto che varcavo indomito la soglia della prima elementare, ci hanno messo un po’, ma quelli erano i tempi.

 

I miei genitori avevano caratteri forti e ho presto trovato il modo di stabilire con loro un sano rapporto conflittuale. Nel cuore di quella che ai miei occhi si palesava come l’ineluttabile rivoluzione universale e ai loro una insensata ragazzata – chiamiamolo così, il ’68 – per concludere una estenuante discussione, colmo di esasperata frustrazione, mi sono trovato a chiedere, ma perché mi avete messo al mondo? Non c’è stata risposta; ma, in un incredulo tono maggiore mio padre, e in afflitto tono minore mia madre, né ’gno, come sarresse a dir perché? Non c’era un perché, e del resto, se mai ci fosse stato, non si sarebbe saputo come dirlo. Dunque sono nato senza un perché da dirsi, e trovo che sia una buona ragione, una ragione che soggiace a ogni altra possibile e dicibile, e attiene, semplicemente, al mandato genetico di ogni essere e ogni specie, generare. Messo al mondo come un animale, né più né meno. 

 

Nel tempo questa semplice constatazione mi è stata di grande conforto; ora credo fermamente che se non sono venuto su tanto male è perché, diversamente dalle mie giovani amiche e giovani amici, non sono stato frutto di un ampio dibattito, di un dilaniante dubitare e considerare e valutare. Sono cresciuto in una famiglia che mi ha molto amato senza neppure saper dire la parola amore, semplicemente perché il fatto che esistessi era una cosa buona; ero un bene, l’unico bene a disposizione di una famiglia proletaria, come dice la parola stessa. Sono stato accudito e protetto nell’unico modo sensato, perché crescessi nutrito, sano e istruito. Ovvero, avviandomi a vivere come a loro non era stato dato; questa era la loro idea d’amore, ne te patirè niente de quer che avan patito noiautri. E così è stato, e hanno per questo pagato un alto prezzo sfinendosi di lavoro, di pena e di cura. Schiavi del mandato genetico, asserviti a una feroce, ancestrale cultura che li ha alienati da una personale, libera realizzazione? Probabilmente, ma quello che posso dire è che quando in casa sentivo parlare di schiavitù, e conseguentemente di libertà, intendevano quella della miseria, della malattia, dell’ignoranza, il nemico sempre alle porte. Forse era ignoranza, di certo aveva un nome, generosità intergenerazionale. 

 

Se sono vivo e sto scrivendo lo devo per intero a quella specifica generosità, che non vorrei sbagliare ma è antica come la specie. La vecchia generazione che sacrifica parte consistente delle proprie energie per la nuova, perché la nuova prosperi. Sebben che siamo donne paura non abbiamo per amor dei nostri figli in lega noi ci uniamo, forse che questo sia stato l’inno di battaglia delle serve? In verità nel tempo che sono cresciuto l’asservimento alla generosità era una condizione pressoché universale, non dimentico come debba quello che so essere e fare alla pratica di gratuita generosità dei vecchi, i vecchi del mestiere, i vecchi del sapere, i vecchi del vivere. La mia generazione non deve forse qualcosa anche alla generosità della Repubblica che ci ha istruito, vaccinato e lasciato fare?

 

Naturalmente tutto questo è acqua passata. Siamo molto più liberi, e la generosità, ogni suo modo, è temibile nemico della libertà. Si potrebbe avanzare qualche dubbio sulla reale natura e consistenza della libertà. Non sono così sicuro che lavorare quanto si vuole, ambire a ciò che si vuole, fare come si vuole, e vivere felici e contenti per l’eternità sciolti dal mandato genetico e dalle contingenze dei corpi, abbia a che fare con un’umana ragion d’essere liberi. Tra l’altro, al momento continueremo a morire e alla fine saremo giudicati, che sia Dio, che sia chi o ciò che verrà, e lo saremo in base a un semplice, universale, principio, quanta vita nell’universo di cui ci attestiamo signori abbiamo generato in cambio di quella che abbiamo consumato? E sia chiaro che non si intende semplicemente vita umana; per quella, per la conservazione della specie, le preoccupazioni sono altre e non certo l’indifferenza procreativa delle giovani donne di qui. Qui non è la sede centrale della specie, qui è solo una malmessa reggia di un reame in disfacimento.
 

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