Foto di Fabian Bromann via Flickr

Perché abbiamo rimosso l'interesse nazionale (e come recuperare)

Arturo Varvelli

Siamo giunti alla fase “sovranista” senza sapere come difendere l’interesse nazionale. Analisi

Negli ultimi 70 anni, parlare di interesse nazionale è stato molto difficile. Mentre gli altri stati orientavano la loro politica estera al perseguimento dell’interesse nazionale, l’Italia dal 1945 in poi negava tale concetto. L’interesse nazionale era stato per 20 anni legato all’interpretazione fascista, orientata prevalentemente al concetto etnico di nazione, al richiamo dei fasti dell’impero romano e concentratasi in un tentativo di conseguire l’egemonia con la forza anche attraverso l’uso strumentale del “nemico esterno”.

 

E’ innegabile che il concetto di interesse nazionale abbia una forte connotazione culturale e ideologica; dipende, quanto alla concreta definizione dei suoi contenuti, dalle circostanze storiche, ed è di difficile configurazione giuridica. Ma esso appartiene in buona parte alla geopolitica, e in tempi più recenti alla geoeconomia. Progressivamente il concetto si è imposto come uno fra gli obiettivi principali dello stato nazione. E’ forse una visione realista ma che sembra sposarsi appieno con la storica azione di politica estera di paesi come Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Paesi, non a caso, nei quali parlare apertamente dell’interesse nazionale – inteso come espressione del patto sociale della nazione in politica estera – non costituisce affatto un tabù, neppure nei partiti di sinistra.

 

In Italia invece il concetto di “interesse nazionale” per lungo tempo ha costituito un tabù nel discorso politico pubblico e nessuna delle forze partitiche della Prima Repubblica ne faceva un obiettivo dichiarato della politica estera. Le forze comuniste legate al marxismo interpretavano l’interesse nazionale attraverso la teoria della lotta di classe. La Democrazia cristiana e le altre forze di governo, con rare eccezioni, ne sublimavano il concetto nella pura appartenenza al campo atlantico e poi, per lungo tempo, l’hanno delegato a quello europeo, accompagnandolo il più delle volte con motivazioni ireniste, come se la semplice appartenenza a queste sfere potesse automaticamente garantirci pace, sicurezza, sviluppo e proiezione internazionale. Le due visioni erano il riflesso della Guerra fredda, ma nessuna delle due era frutto di una vera definizione degli interessi. L’Italia ha vissuto di rendita all’interno del blocco occidentale, permettendosi così di non risolvere chiaramente il proprio interesse specifico. Solo saltuariamente, la questione dell’interesse nazionale emergeva in maniera problematica, il più delle volte quando siamo stati impossibilitati a conciliare al meglio le tre sfere di azione della politica estera italiana: l’Europa, l’Atlantico e il Mediterraneo, con quest’ultimo che ha cominciato a fare capolino in seguito al crescere del nostro fabbisogno energetico. Ma i problemi sono aumentati con la perdita della nostra centralità nella strategia americana nella fase successiva al crollo dell’Unione sovietica. Le élite politiche raramente hanno percepito la necessità di spiegare perché l’Europa e l’Atlantico sarebbero rimaste fondamentali anche dopo la caduta del sistema bipolare e spesso hanno finito per difenderli, sempre e comunque, smarrendo l’esercizio della critica nei confronti dell’istituzione necessario alla salvaguardia dell’interesse.

 

L’Italia ha finito per non affrontare mai la questione di una identificazione e definizione chiara di cosa sia l’interesse nazionale per se stessa. Il concetto, che per molto tempo è stato un silenzioso substrato all’azione di politica estera e di difesa italiana, è riemerso con prepotenza nella retorica sovranista. Dopo aver delegato all’Europa la garanzia dei propri interessi per mezzo secolo, ora gli italiani tendono a incolparla di tutti i propri, relativi, malesseri.

 

Ciò che sembra preoccupare maggiormente del nuovo governo è proprio il rispetto dell’incardinamento internazionale. L’Italia giunge alla “fase sovranista” senza una vera riflessione sui paradigmi utili a sorreggerla. Inoltre, l’attuale sistema internazionale, sempre più multipolare, pare caratterizzato da una grande flessibilità delle alleanze destinata a durare anche nei prossimi anni. Generalmente, sono le priorità e le contrapposizioni ideologiche presenti nel sistema internazionale a predeterminare il disegno delle amicizie e delle inimicizie, ma in un sistema come l’attuale l’indeterminatezza delle prime trascina con sé l’indeterminatezza delle seconde. Ulteriore indeterminatezza nel caso italiano.

 

Può l’Italia fare a meno dell’Europa, dell’Atlantico e del libero commercio in nome di un recupero della propria “sovranità popolare”? Può farlo un paese che non spende neppure il 2 per cento del pil nella propria Difesa, che non è indipendente dal punto di vista energetico, che non dispone di un seggio permanente alle Nazioni Unite né dell’arma nucleare, che dipende per circa il 30 per cento del pil dalle esportazioni, e, infine, che era e rimane una penisola protesa verso un’area così politicamente instabile come quella del nord Africa e del medio oriente? Si tratta di un misunderstanding piuttosto evidente che meriterebbe di essere esplicitato più chiaramente, anche all’opinione pubblica, da chi tiene ancora alla salute della nostra democrazia e da chi vede come pericolosa una deriva illiberale del paese o un disancoramento senza lo studio di una nuova rotta. Per questo sarebbe importante discutere e approfondire cosa sia l’interesse nazionale dell’Italia, una volta per tutte.

 

Arturo Varvelli è senior research fellow all'Ispi

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