Foto di Matteo via Flickr

La battaglia donchisciottesca sulla spiaggia di Castagneto Carducci

Giuseppe De Filippi

L’abbattimento dei capanni sulla spiaggia dei nobili di Bolgheri è tutta una metafora del nostro scontento (e della loro amarezza)

La vittoria legale per liberare la spiaggia di Renaione o forse Palone (probabilmente entrambi, con l’aggiunta di Bolgheri come altro identificativo geografico) lascia non solo la normale malinconia di tutte le vittorie, ma porta con sé, immaginiamo, per i vincitori, anche una percepibile punta di amarezza. Tardi per pensarci e pentirsene, ma non poteva essere altrimenti dopo più di dieci anni di carte bollate e qualche scontro verbale sulla battigia per rivendicare l’accesso alla spiaggia – e in costume le liti sono ancora più grottesche. Contro nessuno poi, perché nessuno si sogna di vietare la passeggiata sul bagnasciuga o un tuffo o una permanenza con telo steso nella zona demaniale (certo, bisogna avere cura di arrivarci a piedi, e ci mancherebbe). Una logorante battaglia giudiziaria, condotta da donchisciotte all’incontrario, che non volevano farsi cavalieri senza esserlo, ma volevano farsi popolani senza esserlo. Ma donchisciottesca nei suoi bersagli, con una cavalcata legale finalizzata a cosa? A ottenere l’ordine di abbattimento di qualche decina di capanni formati da quattro pali di legno ingrigito dal tempo e dalla salsedine – figuriamoci, niente coppale o altri lucidanti, tutto color neutro tra i colori neutri della sabbia, dei vicini sterpi di macchia, perfino del mare di fronte sempre un po’ insabbiato. Quattro pali piantati nella sabbia nella versione invernale e arricchiti di un opportuno tetto in saggina (un trionfo di neutralità cromatica) nella stagione balneare. Capannetti da nulla, ma dispensatori di quel po’ di ombra che permetteva anche ai non patiti dell’abbronzatura a oltranza di stare qualche ora a guardare il mare. Certo, privati, ma di una privatezza minima, neppure rivendicata.

 

L’amarezza del vincitore, intanto, lavora nel profondo, scava, toglie il sorriso. Vinta la battaglia, ridotti a mucchio di legno quei funzionali capanni, resta una spiaggia sgombrata, sempre bella, ma di una bellezza che ai donchisciotte a rovescio dà fastidio. Perché sta lì, non chiede niente (in fondo non è neppure un posto tecnicamente bello, ma è tremendamente elegante) e allora dà ai nervi. Non sapendo come attaccarla allora si dice che è posto da ricchi, e lo dicono quegli stessi che poi vanno a farsi la passeggiata al porto per osservare con ammirazione le barche dei ricchi o i locali dei ricchi. Quelli vanno bene, ma quelli (qualche ricco ci sarà certamente) che invece si riparano dal sole sotto al capanno vanno combattuti. La legge poi è chiara? Mah, dipende sempre dai tempi. In un precedente tentativo di abbattimento la sovrintendenza aveva tutelato i capanni, dicendo che facevano parte a memoria d’uomo del paesaggio locale. Poi cambia la sovrintendenza o qualche altro potere e cambia la memoria d’uomo, così i capanni vanno abbattuti perché insistenti su terreno demaniale, come sostenuto dagli incattiviti donchisciotte alla rovescia. Inutile perfino provare a usare la razionalità delle comparazioni e paragonare, effettivamente un po’ attoniti, la furia contro i capanni alla tolleranza contro le serie di costruzioni che ai due estremi dei cinque chilometri tutelati dalla tenuta cominciano implacabili a proporre in modo contraddittorio la vista mare che stanno negando, e che la macchia l’hanno distrutta qualche decennio fa e la duna l’hanno spianata. Costruzioni che spuntavano mentre i capanni già c’erano. La muratura resta, è diritto acquisito, la ruspa colpisce i pali in legno. Vittorie da nulla, rabbia che resta ai vincitori mentre i vinti si arrangiano. Poco più a nord c’è la villa di Beppe Grillo, in muratura. Lì sulla spiaggia colpiscono le ruspe. C’è un’assonanza con i vincitori delle elezioni, e la loro amarezza è la stessa.

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