Kathleen Turner e Michael Douglas nel film “La guerra dei Roses” (1989), di Danny DeVito, commedia amara diventata negli anni Novanta il simbolo cinematografico dei conflitti coniugali

Lui, lei e l'amore che non c'è

Guerra tra i sessi? Aridatece le belle zuffe di una volta

Fabiana Giacomotti

In letteratura l’alterco e la piazzata sono materie spinose. E la possibile deriva di un loro cattivo impiego è grottesca almeno quanto il sesso

Alla fine dei Settanta, quando la voglia di leggerezza iniziava a farsi sentire e Luca Goldoni ironizzava sui litigi fra damazze e parrucchieri come degli unici degni di nota nella guerra dei sessi, all’epoca ancora fermi a quota due e definibili come tali senza il rischio di finire davanti a un tribunale come potrebbe accadere a breve nell’Inghilterra della querula follia gender-neutral, la baruffa aveva un che di garbato anche in televisione e, incredibilmente, a dispetto dei cortei rabbiosi a favore della legge sull’aborto e delle pallottole che volavano per strada. Le ragazze alzavano le mani mimando una vagina come oggi non riescono a fare, impegnate come sono a recriminare sul diritto di ciascuna di respingere l’eventuale molestatore maschio con un calcio nelle parti basse e, come possibile e sgradevole conseguenza dello stesso, calciare lontano anche lavori interessanti e opportunità, oppure di giostrarsela a piacimento e senza sensi di colpa (da segnare la battuta di Lory Del Santo sulla “legittimità” del do ut des, purché garantito sicuro: “Darla sì, ma bisogna vedere cammello”).

 

In generale sembrava che si litigasse di meno, o forse i litigi violentissimi di oggi non venivano alla superficie e non accecavano di sangue gli occhi dei contendenti, in particolare di coniugi e fidanzati offesi, spingendoli a estrarre il coltello dal cassetto della cucina; forse agivano ancora in forma blanda ma estesa i freni di quella “civiltà delle buone maniere” basata sull’autocontrollo che affonda le proprie radici nell’Europa medievale e che la società di oggi ritiene invece incompatibile con il diritto di ciascuno alla libera espressione dei pensieri più intimi e degli istinti più naturali, fosse pure insultarsi in appositi format televisivi con sceneggiatura dedicata (“Uomini e Donne”, “Domenica Live”) oppure scopare en plein air per ammazzare il tempo nell’attesa del tram, e ho scelto il verbo con cura perché “fare l’amore” suonerebbe inadeguato e “fornicare” obsoleto e un po’ ridicolo.

 

Forse agivano ancora i freni di quella "civiltà delle buone maniere" che affonda le proprie radici nell'Europa medievale

Quarant’anni fa, gli anni delle grandi svolte sociali di cui paghiamo le conseguenze oggi, le signore iniziavano a usare il turpiloquio con il gusto eccitato delle bambine di fronte a un giocattolo nuovo e proibito, ma questo era visto dalle camillecederne del tempo come segno di smarcamento dalle ipocrisie della società borghese, insomma come un’opzione snob che nessuno avrebbe praticato comunque a microfoni accesi; se la famosa partita della “battaglia dei sessi” fra Billie Jean King e Bobby Riggs del settembre 1973, ora blockbuster cinematografico di sceneggiatura politicamente correttissima con Emma Stone, fosse stata organizzata adesso, i social fan si sarebbero scatenati fra tweet grondanti odio e luoghi comuni, azzerando il senso della contesa in campo, e i due stessi protagonisti, sull’onda dell’emozione e per mantenere la posizione come trend topic su twitter, si sarebbero scannati a telecamere accese. Non vorrei sembrare una di quelle signore di mezza età che rimpiangono i tempi andati, dopotutto nel 1973 ero alle elementari e della partita sentii parlare solo perché mia madre organizzò una sorta di sit in per commentarla con le amiche in mezzo a qualche altro soggetto di certo meno entusiasmante; oggi l’ho cercata sul web, si trova sul sito della Abc, per verificare quanto di vero ci fosse nella sceneggiatura zuccherosa del film; quei gesti bianchi ed eleganti che noi bambini imparavamo con grande fatica mi sono sembrati lontanissimi dal tennis muscolare e velocissimo di oggi, in cui uomini e donne esalano trasversalmente un grugnito liberatorio ad ogni rovescio e uno sgrunt a ogni volée. Devo ammetterlo, i dialoghi di “Battaglia dei sessi” sono molto fedeli alle uscite pubbliche di Billie Jean King e Bobby Riggs; sono rimasta basita e pure un po’ male, a vedere come due rivali che combattevano, uno almeno, per una questione di diritti civili, potessero punzecchiarsi con l’arguzia di due personaggi scespiriani e con la certezza di essere compresi da una platea sterminata di lettori e spettatori.

 

Oggi, nel timore di non trattenere davanti al video il moloch del grande pubblico, cioè di solleticare gli istinti degli spettatori più rozzi e brutali garantendo loro qualche certezza sui propri modelli di comportamento, si passa all’insulto prima ancora di aver esposto le proprie ragioni. In qualche lustro, il litigio privato ma soprattutto quello pubblico ha cambiato letteralmente, oltre a quelli di chi litiga, anche i propri connotati. Dalla querelle seicentesca si è passati alla rissa verbale e anche fisica con chiunque capiti a tiro: andate a chiedere agli autori di “Domenica Live” e ve ne daranno ampio saggio. Questo non significa che un tempo gli scoppi di rabbia venissero sempre ed elegantemente repressi; pensate alla vita di Caravaggio, eroe della più recente musealità trasversale che una certa corrente vorrebbe trasformare nel nuovo Leonardo, assassino per rabbia e latitante: in genere si apprendeva però dove, quando e con chi dosarli, se non altro per non perdere faccia e reputazione.

 

Se la famosa partita fra Billie Jean King e Bobby Riggs del 1973 fosse stata organizzata adesso, i social fan si sarebbero scatenati

Qualche settimana fa, cercando su Rai Teche riscontri a una strepitosa collezione di acconciature del varietà storico a fini archivistici e di esposizione per il Prix Italia, mi sono imbattuta in un “processo alla moda” in punta di perfidia fra la compianta Mariuccia Mandelli, Krizia, e un gruppo di femministe piuttosto confuse sul ruolo dell’abbigliamento nella vita collettiva, almeno secondo gli standard attuali in cui anche le dive di “Suburra” menano vanto dei propri piumini color pastello, segno supremo di cafonaggine, e degli ori che si appendono alle orecchie. La grande Mariuccia, allora all’apogeo, esalava cattiverie senza muovere un solo capello del suo caschetto lungo, taglio Vergottini, lontana anni luce da Corinne Clery che attacca briga con Serena Grandi su Canale 5, entrambe sfatte dalla vita e dai chirurghi; eppure, c’è chi ricorda Krizia lanciare un bicchiere di vino rosso sulla faccia del molestatore del suo assistente a una cena di Natale a casa Crespi, proprio sotto i famosi Canaletto. Reazioni diverse a luoghi e occasioni diverse, ma soprattutto un forte senso civico e il senso della responsabilità nei confronti di chi guardava, ascoltava e dunque avrebbe potuto modellare se stesso su quanto visto e sentito; tutte riflessioni che adesso non sfiorano le coscienze di nessuno. Adesso si litiga come si può e come viene.

 

Mancano i modelli del litigio, che un tempo arrivavano dall’intrattenimento più popolare, cioè il teatro e, per i più colti, dalle grandi diatribe letterarie e scientifiche, per esempio la famosa Querelle des Anciens et des Modernes con le famose “tirate” pubbliche fra i contendenti, Jean Racine in testa, che all’epoca entusiasmavano anche le classi meno sofisticate grazie alla loro relativa virulenza: mancando la televisione, sopperivano l’Académie e la platea posti in piedi. Per chi ha invece basato la propria formazione sui romanzi, l’identificazione di un litigio con i fiocchi, ben sviluppato e magari fonte di spunti di rapido uso in uno scambio amoroso a due o in famiglia è impresa ardua, lo scrivo con rammarico dopo una riflessione da cui sono emersi alla rinfusa il Nabokov di “Lolita”, ultime pagine che sono quelle dell’intolleranza e della fuga, lo scoppiettante diverbio sull’inchiostro seccato fra l’Adalgisa e il “povero Carlo ragioniere” e la celeberrima chiosa di “Via col vento” (“che cosa farò senza di te?”, “francamente me ne infischio”) – testo che amo moltissimo come tutto il suo paraphernalia di lettere, sceneggiature, foto e souvenir, ma che definire letteratura sarebbe davvero forzato – oltre a un discreto diverbio ne “Il mio noviziato” fra il marito sfruttatore di Colette, Willy, e l’editore Veber che, come un qualunque Weinstein, “palpa il sedere della mia cameriera”.

 


Genitori in lite per i figli: Kate Winslet e Christoph Waltz in una scena di “Carnage” (2011), di Roman Polanski


 

In buona sostanza, una bibliografia davvero contenuta, soprattutto rispetto al cinema e in generale alla drammaturgia: la lite efficace è una forma d’arte in sé, come la sceneggiata dimostra, e per esprimersi nella sua pienezza ha bisogno di respiro, di aria, di ossigeno e di inventiva. La parola trasposta su carta, doppio passaggio fra lettura e rielaborazione del suono e del suo significato, non ha l’immediatezza del suono diretto: ne sapevano qualcosa Flaubert, Apollinaire e D’Annunzio, che tutti andavano tentando di annullare questo impercettibile, infinitesimale eppure insostenibile scarto cognitivo fra rielaborazione visiva e suono. Nella libreria di riferimento di Roma centro, la Fahrenheit di Campo de’ Fiori, popolata di bibliofili veri e clienti armonici, alla domanda sul miglior litigio letterario di tutti i tempi, Angelo Salvatori ha citato senza esitazioni Benedetto e Beatrice di “Molto rumore per nulla”, cioè ancora Shakespeare e ancora teatro e per di più meraviglioso, anche se vorrei vedere ora qualcuno trovare adeguato all’attuale livello di violenza uno scambio in cui una profferta amorosa sgradita viene paragonata “ai latrati del mio cane / quando vede volare una cornacchia”. Propenderei piuttosto per la Yasmina Reza di “Art” o Nathalie Sarraute di “Per un sì o per un no”. Nella narrativa, di rado il litigio e l’alterco sono indicati come tali; appena può, l’autore passa oltre perfino nella letteratura dell’Ottocento, potentemente descrittiva quando non verbosamente minuziosa. Accade perfino nel Novecento che usa a piene mani i moduli propri del parlato. La piazzata è materia spinosa e la possibile deriva di un cattivo impiego grottesca almeno quanto il sesso, e se non esiste un omologo del “Bad sex in fiction award” che la Literary Review assegnò lo scorso anno a Erri De Luca per “Il giorno prima della felicità” è probabilmente che questo avvenga per mancanza di materia.

 

Si punzecchiano con l'arguzia di due personaggi scespiriani e con la certezza di essere compresi da una platea sterminata di spettatori

Il barone rampante dichiara che non mangerà mai le lumache e sparisce fra i rami al termine di un alterco in famiglia di cui molto si immagina; al principe di Salina, come si sa, basta girare lo sguardo attorno al tavolo perché l’intera famiglia si zittisca, e quando la moglie azzarda una requisitoria contro il matrimonio annunciato fra Tancredi e Angelica gli è sufficiente un comando per farla piangere. Nel “Pot-Bouille” di Emile Zola, in italiano “Cucina alla buona”, velenosissimo romanzo sui costumi della classe borghese, è invece il marito, monsieur Josserand, ad avere la peggio nel litigio fra la moglie e le figlie. Litigi amorosi veri e propri si trovano solo fra i romanzi rosa, ne sono anzi il motore secondo lo schema narrativo più classico dell’incomprensione-disvelamento-perdono, insomma nella letteratura di serie B o anche C. Fra le prime file è durissima anche per un motivo per così dire sociale e di ordine familiare ormai del tutto superati. Vi immaginate Eugénie Grandet che si ribella al padre mandandolo a stendere? Thérèse Desqueyroux che agisce alla luce del sole invece che nell’ombra? Baruffe chiozzotte fra moglie e marito? Come il Foglio ha analizzato più volte nelle ultime settimane per il caso Weinstein, le forme assunte dalla ribellione sono diretta conseguenza del momento storico in cui si verificano, e che un alterco fra moglie e marito degenerasse in una rissa in cui entrambi i contendenti sentivano di avere pari diritto di dare aria ai polmoni, solo trent’anni fa era un caso estremamente raro. Ne è riprova il fatto che, mentre la letteratura di un tempo sul tema è davvero guardinga, e avara di dialoghi, l’editoria di oggi va trasformandola in materia per psicologi, da “imparare a gestire” come si dice, fin dall’infanzia.

 

Su Amazon, declinazione francese o italiana o inglese, si trovano decine di volumi a fumetti o narrati con tono favolistico che insegnano apertamente e riconoscere e a risolvere i conflitti verbali in “modo appropriato” già a tre anni. Qualche titolo: “E’ la vita Lulù. Ho litigato con la mia amica”; “Il litigio”; “Sorelle tomo II: Il gatto a tracolla”; “Rock&Rose, tomo IV: l’ultima parola”; “Non sono stato io” (sottotitolo: per litigi fra fratello e sorella), “Non voglio più essere tua amica”; “Il litigio”, “Il nocciolo”. Leggo nella scheda per il libraio e per i genitori di una di queste case editrici “che i litigi aiutano a crescere”, filone molto ricco dell’editoria di successo dagli anni dei famosi “no che aiutano eccetera” ma che è necessario insegnare subito ai piccoli “a trovare una mediazione fra i propri e gli altrui desideri”. In questi testi, ma soprattutto nei disegni, la componente femminile è ampiamente dominante. Sono loro le destinatarie principali di quest’opera di addomesticamento. A loro si insegna a mediare, a capire, a reprimere, a trovare soluzioni. I maschi vi figurano in modo marginale o in età adulta, tipo vecchi conigli che si azzuffano per una tana, e ogni riferimento malizioso a Weinstein è, va da sé, puramente casuale.

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