Foto LaPresse

La bionda della porta accanto

Anselma Dell'Olio

A New York solo lodi per il debutto alla regia di Greta Gerwig. E piace anche il docufilm su Arthur Miller

“Lady Bird”, il debutto nella regia dell’attrice sceneggiatrice sex symbol degli intellettuali yankee Greta Gerwig, ha suscitato recensioni entusiastiche e standing ovation a due festival di rango, a Telluride lo scorso settembre, e al New York Film Festival (NYFF55) appena concluso, la cinquantacinquesima edizione al Lincoln Center. Gerwig, la bionda-imbranata-della-porta-accanto è nota per la stretta collaborazione artistica e personale con l’autore Noah Baumbach (“Frances Ha”, “Mistress America”, “Il calamaro e la balena”). “Lady Bird”, sin dal festival di Telluride dove ha esordito, il film ha generato titoli che sparano previsioni di Oscar 2018: per il film, per la regia, per diversi interpreti, e magari persino per la bellezza “normale” della regista, per la sua stessa incantevole esistenza, tanta è l’ammirazione che la sceneggiatrice, “attore” e ora autore cinematografico suscita nell’ambiente cinematografico colto statunitense. (N.B. Il finale in “ice” non si porta più per interpreti con ambizioni artistiche, aggettivo degradato in “arty” per chi sfotte questa moda, anche se si condivide l’antipatia per affissi siffatti in generale: “poetessa” andrebbe abolito dall’Accademia della Crusca, punto). Sul sito Rotten Tomatoes, che fa la media di assenso/dissenso per un film, “Lady Bird” registra un inconsueto cento per cento (sic) di approvazione da parte della critica. Solo dopo l’uscita in sala si sapranno le reazioni del pubblico pagante, ma ben il novantaquattro per cento di spettatori potenziali “desidera vederlo”.

 

Attrice, sceneggiatrice, sex symbol degli intellettuali yankee,ha scritto un copione ben congegnato e spiritoso. Ottimo il cast

Lady Bird è il soprannome che la protagonista, nata Christine, si sceglie, nel tentativo tipicamente tardo-adolescenziale di forgiarsi un’identità propria rispetto ai genitori, in particolare contro la madre – donna di polso e medico che fa doppi turni in ospedale per mandare avanti la famiglia – e in polemica con la città di nascita. Sacramento, capitale dello stato di California, situato nel punto di confluenza di due fiumi, è dunque metafisicamente qualificato, come Torino, ma di quest’aspetto il film parla solo in maniera tangenziale, attraverso l’anomalo, cavalleresco cammeo della suora, preside del liceo “Eternal Flame” della protagonista, scritto e recitato con generoso talento, e interpretato dalla sublime veterana Lois Smith. Christine-Lady Bird non vede l’ora di evadere da una città nota più per la vasta area agricola di The Central Valley che per la cultura. (La Central Valley, composta dalle valli San Joaquin a sud, e dalla Sacramento a nord, produce ricchezze alimentari tali che farebbero della California, se fosse uno Stato indipendente, il quinto al mondo per prodotto interno lordo). Gerwig racconta una storia di formazione assai somigliante alla sua: istruzione dalle suore – le scuole pubbliche californiane non sono note per il rigore scolastico – ribellione a tutti i conformismi, capelli tinti di un rosso improbabile. La ribelle, però, ha un conflitto interiore: una voglia segreta di appartenere, o almeno apparire di una condizione sociale superiore alla propria quando viene agganciata da una compagna di scuola fascinosa, ricca e cool (Odeya Rush). D’un tratto abbandona la goffa, potelée, più povera amica del cuore (la brava e simpatica fin dal nome Beanie Feldstein).

 

All’ultimo anno di liceo, Lady Bird desidera a tutti i costi frequentare un’università sull’East Coast, costosa e lontanissima da casa, anziché la vicina e meno esosa Università di Sacramento auspicata dalla mamma. La ragazza di provincia vuole immergersi nel glamour della Cultura Autentica: New York City. Promossa dalle origini mumblecore (film ultra-indipendenti a basso costo e di argomenti minimalisti e quotidiani) con “Lo stravagante mondo di Greenberg” di Baumbach, Gerwig ha spesso collaboratao ai copioni che suoi film; la sceneggiatura di Lady Bird, tutta sua, è ben congegnata e spiritosa; i personaggi sono ben delineati, e il cast ottimo: Saoirse Ronan (“Espiazione”, “Brooklyn”) attrice irlandese di rara bravura, crea una versione di Gerwig-Lady Bird con meno tic (“shtick” si chiama in Yiddish, il ricorso a tuzi e mossette di provato successo, vedi Diane Keaton) e californianità ma dotata di una presenza e portamento più stringente e composto dell’originale, meno consapevolmente impacciata. Laurie Metcalf, professionista non celebre ma stimata, agguanta fino in fondo il ruolo della vita come la mamma-sparring partner di Lady Bird, una valente deuteragonista. Il padre dolce e disoccupato è Tracy Letts, commediografo Premio Pulitzer (“August: Osage County”) e raffinato attore di cinema e di teatro (Tony Award per il ruolo di George in “Chi ha paura di Virginia Woolf” a Broadway) e la già citata Lois Smith è la irrituale e tollerante Madre Superiore. Ma la più divertente e ficcante battuta di “Lady Bird” è della scrittrice Joan Didion, d’origini sacramentine come la Gerwig: “Chiunque cianci di edonismo californiano, non ha mai passato un Natale a Sacramento”.

 

(Ndr: Il fidanzatino rocker di Lady Bird è l’attor giovane in ascesa Timothée Chalamet, accattivante e lodatissimo protagonista del nuovo film di Luca Guadagnino “Call Me By Your Name”. Il Guardian lo promuove come oscarizzabile insieme con il film e il co-protagonista Armie Hammer – “The Social Network” – in esordio al NYFF55. Il regista siculo-algerino è un’adorata divinità all’estero ma non in Italia. Dopo aver subito sberleffi e condanne senza appello dalla critica a Venezia per “Io sono l’amore”, osannato dal resto del mondo, non sorprende che l’elegante, colto autore italiano preferisca snobbare i festival italiani). Gerwig ha fatto un solo passo falso nel suo percorso magico. Ha firmato incautamente un appello contro una commedia teatrale israeliana messa in scena al Lincoln Center, sponsorizzato dal gruppo anti-israeliano BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni). Pochi giorni dopo per Gerwig si parla di Oscar per Lady Bird. Si è scusata, autodenunciandosi per superficialità nel leggere la petizione: “Non ne sapevo molto, di solito sono più attenta quando firmo appelli; con rispetto per i nomi di rango che hanno firmato e che ho seguito senza informarmi abbastanza, non posso aderire alla richiesta di censura di un’opera d’arte”.

 

Nella circolarità del NYFF55 2018, Gerwig era la protagonista di “Maggie’s Plan”, commedia screwball di Rebecca Miller su una giovanotta che pensa di poter programmare tutto, anche fare un figlio con minima interferenza maschile. L’esempio è contagioso: dopo aver lavorato con una regista donna, l’attrice californiana dice che ha sentito impellente la necessità di scrivere e dirigere un film tutto suo. Rebecca Miller è anche presente come attrice nel film di Noah Baumbach, compagno e mentore di Gerwig, in “The Meyerowitz Stories”, presente al NYFF55. Tra i diversi film al Festival di New York con autori femminili, c’è il documentario “Arthur Miller, Writer”, diretto proprio dalla figlia, l’attrice-regista-autore Rebecca, figlia di Inge Morath, fotografa e terza moglie del grande commediografo (“Morte di un commesso viaggiatore”, “Uno sguardo dal ponte”). Per venticinque anni, prima della morte del padre nel 2005, la Miller aveva girato una serie d’interviste con Arthur, di cui è perdutamente innamorata e gelosissima. (“La storia di e Jack and Rose” è il suo film del 2005, anno della morte di Arthur, su un vedovo malato, interpretato da Daniel Day Lewis, marito della Miller. Nel film la figlia Rose mette serpenti velenosi sotto il letto dell’odiata rivale, Catherine Keener, vendicandosi con la finzione dell’ultima compagna del padre, una trentenne che lui ha conquistato dopo sei mesi di corteggiamento serrato con tutte le sue considerevoli armi di seduzione).

 

Le chiacchierate con il celeberrimo papà, integrate con altre interviste con parenti e altri girate ad hoc, contributi vari, fotografie d’epoca e materiale d’archivio, più brani dalle commedie più famose e dall’autobiografia “Svolte” (Mondadori, 1988) letti dallo scrittore. E’ un ritratto intellettuale e affettivo professionale e personale fino a un certo punto. Rebecca indaga i due precedenti matrimoni del padre, il primo (1940-1956) con Mary Grace Slattery, e il secondo (1956-1961) con Marilyn Monroe. Ci sono scene da “Gli spostati”, con Clark Gable (il suo ultimo film) e Montgomery Clift, film scritto per permettere a Marilina di dimostrare il suo talento drammatico. Lo scrittore, e la bionda più sensuale ed esplosiva di Hollywood si lasciano durante le riprese. Più tardi Miller sposa la fotografa Morath, conosciuta sul set. L’ultimo matrimonio dura quarant’anni, fino alla morte di Inge.

 

La figlia non trascura di indagare, fino a un certo punto, il lato oscuro della vita dei genitori. Dopo Rebecca è nato Daniel, bambino con la sindrome di Down, passato dalla clinica a un istituto e la cui esistenza è diventata di pubblico dominio solo dopo la morte di Morath (che andava a trovare Daniel ogni tanto) e di Arthur (che lo visitava solo dopo la morte della terza moglie) con grande scandalo giornalistico per il figlio “rimosso” dall’artista. Era rinomato per la compassione profonda delle sue opere ma anche per la spietatezza, in verità. Il documentario è sempre interessante, anche se ogni tanto cala il ritmo. Rebecca si vede e si sente pochissimo nel film; evita di parlare del loro rapporto padre-figlia. Certamente rende giustizia non solo al talento e alla spiritosa amabilità dello scrittore, ma altrettanto alla sua carica di magnetismo sensuale rigorosamente maschile, quadrato, un Gary Cooper incrociato con Abramo Lincoln: osservandolo nel film nelle diverse età e persino da novantenne, si capisce perfettamente che la Monroe non era soltanto attratta dal di lui cervello, nossignore.

 

Un altro film festivaliero con uno sguardo femminile che ha raccolto il cento per cento dell’assenso su RottenTomatoes è “Faces Places” (“Visages, villages”) dell’ardita e indomita Agnès Varda, minuscola quasi novantenne (ottantotto primavere quando ha girato il film) con pettinatura pop bi-tonale, la parte inferiore rossa, e la corona simmetricamente bianca, così non deve mai preoccuparsi delle radici, bestie nere di chi si tinge i capelli. Il film è un documentario sulla collaborazione tra due generazioni e la voglia di creare arte senza aggettivi, co-diretto con il fotografo e artista ambientale trentaquattrenne JR, aspetto da dj con capello Trilby e occhiali neri toujours incollati sul viso. Un tormentone della loro collaborazione on-the-road è il tentativo sempre fallimentare di Varda di farglieli togliere “per vedere i tuoi occhi!”. La coppia gira a zonzo per i piccoli villaggi della provincia francese, con un camioncino che è uno studio fotografico, dove si fanno e si sviluppano all’interno gigantografie dei soggetti: tutti abitanti ignoti che vivono nella campagna o nei paesini. Gli stessi cittadini poi si vedono campeggiare su case, palazzine, anche su grandi massi sulla spiaggia che spariscono dopo l’alta marea lavante. Persino il camioncino sembra una macchina fotografica, grazie alla gigantografia con obiettivo al centro all’esterno del veicolo. Se la qualifica “artista ambientale” fa vibrare le antenne degli anticonformisti, tranquilli: JR e le sue opere sono buffe e divertenti, emozionanti, mai ricattatorie, belle e di forte impatto.

 

 Vista al Film Festival anche l'ultima pellicola dell'ardita e indomita Agnès Varda. Una profondità implicita, mai esibit

Varda (regista Leone d’oro 1985 per “Senza tetto né legge”) e nominata a suo dispetto “la grandmère de la Nouvelle Vague”, nasce fotografa; lei e JR s’intendono bene. “Facciamo un film?” chiede il giovane. “Mi piacciono i posti semplici e le facce”, risponde Agnès. La regista, saggia, astuta e spiritosa, fa la consulente d’eccezione che contribuisce con idee e commenti, stimolando e raffinando, mentre JR completa ed esegue i progetti con le gigantografie. Si scopre che alla squadra di assistenti servono per attaccarle enormi secchi di colla per poter fissare con dei rulli sulle superfici designate, i molti metri quadri di carta impressa con le immagini fatte e sviluppate nel camioncino-laboratorio. JR si diverte anche a riprendere e sviluppare pesci immensamente ingranditi che poi occhieggiano dalle alte, rotonde cisterne di acqua delle località provinciali: di volta in volta, una capra con le corna, occhi altrettanto enormi ci guardano dai vagoni ferroviari, le dieci dita di due piedi, quelli di Varda, spuntano allegre lungo i lati arrotondati di auto-cisterne; un agricoltore virtuale campeggia sul proprio fienile, l’immagine del postino del paese ricopre come un colosso l’ufficio postale.

 

Nei piccoli centri “il postino è fondamentale”, approva un compaesano mentre guarda la foto immensa. Una giovane donna ha un sussulto, quando vede la propria, vasta immagine in un abito estivo, i piedi nudi, un ombrellino alzato sulla testa. La figura ricopre un intero palazzo a un incrocio: “Oh! Non la immaginavo così grande!”. Un passante ammira l’opera e commenta “L’arte deve sorprendere, no?”. Un’altra signora, più anziana, è l’ultima abitante in un quartiere di case di minatori a schiera, ormai tutte abbandonate, tranne la sua: “Mio padre ha lavorato tutta la vita in miniera, sono nata e vissuta qui. Ora sono sola ma non ne vado”. La donna trasale, e insieme con lei lo spettatore, quando vede una cosmica se stessa troneggiare sulla facciata della propria palazzina.

“Villages, visages” non è mai lezioso; anzi, ha il raro dono della semplicità, dunque di una profondità implicita, mai esibita. Un tizio avvisa JR, mentre lui e i suoi aiutanti allestiscono un’impalcatura, che “bisogna avere i permessi per i ponteggi”. Di rimando il fotografo subito motteggia: “Mandate tutte le ammende a Agnès Varda”. L’accattivante film ha vinto il Premio del pubblico a Toronto e in molti dei diversi festival ai quali ha partecipato. Con cinquantacinque anni di differenza tra lei e lui non c’è ombra di competizione né di scandalo sessuale. Se la donna fosse la più giovane, sarebbe lo stesso?

Di più su questi argomenti: