"La sfida" ti fa venire voglia di andare a iscriverti in palestra

La recensione del romanzo di Norman Mailer sull’incontro di boxe tra George Foreman e Muhammad Alì, nell'unica rubrica che vi dice come parlare di libri (senza perdere tempo a leggerli)
 

Andrea Ballarini

Shottini è un'idea di Andrea Ballarini. Video ed editing di Enrico Cicchetti


 

Chi è stato ragazzino negli anni ‘60 e ‘70 ricorderà che ci sono stati tre momenti che hanno celebrato l’eroismo e che tutti e tre vedevano protagonista l’America, intesa come Stati Uniti: non a caso siamo tutti cresciuti giocando agli indiani e ai cowboys, che non sono esattamente modelli culturali nostri. I tre momenti sono stati Neil Armstrong che posa il piede sulla luna nel 1969, Bobby Fischer il nerd ante litteram geniale e un po’ maleducato che le ha suonate al serissimo Boris Spassky al campionato mondiale di scacchi del 1972 (e infatti abbiamo tutti imparato a giocare a scacchi allora) e poi, terzo momento, il 30 ottobre 1974, l’incontro di boxe tra George Foreman e Muhammad Alì, nel quale Alì riconquistò il titolo mondiale dei pesi massimi sette anni dopo che glielo avevano tolto e anche messo in galera per renitenza alla leva per la ragione, come ebbe modo di dire, che “nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro”. Sia Alì che Foreman erano americani, ma stavolta gli Usa erano i cattivi, giacché Alì venne subito considerato una specie di ambasciatore internazionale dei neri di tutto il mondo.

 

Il libro di cui parliamo oggi è del 1975 e ricostruisce minuziosissimamente proprio questo terzo episodio ed è “La sfida” di Norman Mailer. Il titolo originale era, come sempre, più azzeccato della traduzione italiana: “The fight”, il combattimento, ma si sa che ai nostri editori piace rendere difficile il facile attraverso l’inutile, come diceva un mio vecchio professore di liceo.

 

Questo libro è uno dei prototipi assoluti del romanzo-reportage, una delle novità introdotte dal new jourmalism, un movimento newyorchese e californiano che a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 ha cambiato per sempre il modo di fare giornalismo, fondendolo con la letteratura. Non per niente Norman Mailer ne è stato uno degli esponenti più importanti, insieme a Tom Wolfe, Hunter Thompson, Truman Capote.

 

Infatti, conformemente ai principi di questa corrente letteraria, Mailer racconta passo passo tutto quello che ha portato alla famosa notte di Kinshasa. Già perché l’incontro si è svolto alle quattro di mattina in un’arena davanti a centomila persone, nello Zaire del dittatore Mobuto, uno di quei bei personaggini insieme a Bokassa e Amin che in quegli anni andavano per la maggiore in Africa. E infatti il lettore viene condotto per mano ad assistere dal vivo ai mille avvenimenti, piccoli e grandi, che hanno dato vita a “Rumble in the Jungle” (Il terremoto nella giungla) come venne chiamato l’evento da Alì, anche se l’inventore dell’espressione, racconta Mailer, è stato il suo assistente, trainer e cornerman Drew Bundini Brown. Lo stesso che si è inventato “Vola come una farfalla, pungi come un’ape”: gran bel copywriter.

 

Mailer con un’abilità pazzesca vi porta, come se ci foste stati di persona, a respirare l’aria di quei giorni a Kinshasa, capitale dell’ex Congo Belga, un’atmosfera che ricordava una guerra tra due weltanschauung contrapposte (Sempre dirlo in tedesco che fa figo). La visione del mondo dei neri e quella degli americani Wasp; anche se Foreman era tutto meno che wasp, ma in quell’occasione rappresentava quegli Stati Uniti che esportano la loro idea di democrazia, anche con l’uso del napalm, se serve.

  

In 260 pagine che però voi non leggerete, trovate descritti nei minimi particolari oltre alle personalità antitetiche dei due pugili: chiacchierone e istrionico uno, serissimo e silenzioso l’altro, anche i tanti personaggi che ruotavano loro intorno, da Angelo Dundee, l’allenatore di Alì, che è ovviamente il modello a cui si è ispirato Burgess Meredith per interpretare Mickey Goldmill, l’anziano allenatore di Rocky Balboa; a Don King, l’organizzatore del match (un vero cialtrone con i capelli verticali), che per mettere sotto contratto i due pugili ha promesso 5 milioni di dollari a ciascuno, anche se al momento non aveva una lira, fino ai commentatori sportivi pro e contro l’uno o l’altro (come Joe Frazier che aveva un po’ il dente avvelenato perché Alì gli aveva dato dell’ignorante). Ma nel libro si racconta anche cos’era lo Zaire del pazzo Mobutu, una specie di stato a suo uso e consumo personale, e si raccontano anche gli zairesi che erano schierati in massa con Alì, perché vedevano il lui il rappresentante dei neri angariati di tutto il mondo, da cui il grido di battaglia “Ali boma yé” (Alì, uccidilo) che non è esattamente un saggio di fair play, ma sta a guardà er capello; anche perché Forman, che peraltro viene raccontato da Mailer come tuttaltro che un materialone senza cervello, ha sbagliato un ciccinino l’approccio perché è sceso dall’aereo con un pastore tedesco al guinzaglio, cosa che ha fatto incazzare come delle bestie gli zairesi perché i belgi che se ne erano andati da poco usavano proprio quei cani per dar loro la caccia. Questo nel libro non c’è, ma se andate a rivedervi il bellissimo documentario “When we were kings”, che è praticamente la versione cinematografica del libro di Mailer, vedete proprio la scena.

  

Insomma, Mailer crea sapientemente un clima di attesa che poi scioglie nella seconda parte del libro in cui narra, pugno per pugno, quello che è successo sul ring, dalla prima ripresa, in cui Alì contravvenendo a tutte le regole del buon pugilato spara subito una raffica di diretti al viso di Forman, che è una cosa che non si fa mai tra professionisti, perché il diretto destro è pericoloso anche da tirare oltre che da prendere, al gioco esasperante in cui si appoggia alle corde mandando fuori misura l’avversario o smorzandogli i colpi, alla famosa quinta ripresa in cui Foreman intravede la sconfitta che arriverà tre riprese dopo quando, dopo aver lasciato sfogare Foreman, che ha continuato a menare come un fabbro tutto il tempo sparando delle cannonate che avrebbero steso un toro, lo finisce con una rapida serie di colpi al viso, scaricandogli una dozzina di pugni in due secondi che lo mettono al tappeto. Ora io non ho una particolare passione per chi sale su un ring cercando di smontare il prossimo pezzo per pezzo, ma le quaranta pagine in cui Mailer descrive quel che è avvenuto sul ring di Kinshasa ti fanno venire voglia di andare a iscriverti in palestra. Se lo fate però, tenete presente che i cori Rossi boma yé o Galimberti boma yé non suonano altrettanto bene di Alì boma yé.


  

LA SFIDA, Norman Mailer. Einaudi, 260 pp