Feliphe Schiarolli 

Come riformare la scuola per evitare che il divario nord sud Italia diventi quello tra noi e l'Europa

In italiano e matematica, dopo tredici anni di scuola, uno studente su due non raggiunge il livello di competenza minimo. Si confermano pesanti divari territoriali

Mario Leone

La triste fotografia che esce dal test Invalsi mostra che la scuola non può più essere un ammortizzatore sociale dove merito, concorrenza, autonomia, progettualità, investimenti siano tabù. Occorrono una vera parità statale e paritaria, più autonomia per i presidi, un ripensamento dell'esame

Puntualmente l’afa di luglio porta con sé i risultati dei test Invalsi che tante scuole svolgono nel mese di aprile. Quest’anno le prove di italiano, matematica e inglese sono state somministrate secondo le modalità pre – pandemia, coinvolgendo la totalità degli studenti.

  

Un po’ di numeri che rendano il contesto. Dodicimila le scuole coinvolte; un milione di allievi della scuola primaria (classe II e classe V), circa 570.000 studenti della scuola secondaria di primo grado (classe III) e oltre un milione di studenti della scuola secondaria di secondo grado. Partiamo da un piccolo dato positivo: non si sono verificati scioperi da parte dei docenti somministratori e degli studenti, così quasi la totalità degli allievi ha svolto le prove.

La notizia che più ha fatto scalpore è che in italiano e matematica dopo tredici anni di scuola uno studente su due non raggiunge il livello di competenza minimo. Per non parlare poi dell’aumento del divario tra nord e sud del paese che si attesta sul 23 per cento. Non è questo il luogo dove dettagliare ulteriori aspetti, basti sapere che in linea generale peggiora il rendimento degli studenti e non si registrano ancora “significativi cambiamenti di tendenza” rispetto agli anni del Covid. “Preliminarmente andrebbe chiarito che spesso la lettura data ai risultati dei test Invalsi non è corretta e lo stesso strumento dei test, secondo i pedagogisti, non è progettato e utilizzato correttamente - dice Roberta Calvano, professoressa ordinaria di Diritto Costituzionale presso l’Università "Unitelma Sapienza" - L’Invalsi dovrebbe fornire un quadro d’insieme utile a indirizzare le scelte politiche e non essere uno strumento valutativo dei singoli studenti, con effetti discriminatori o di delegittimazione della scuola e degli insegnanti”.

 

Il ministro Valditara si è detto preoccupato e ha subito presentato un’Agenda Sud con duecentoquaranta scuole coinvolte dove effettuare “investimenti economici importanti, mettendo gli studenti al centro. Promuovere una didattica innovativa, laboratoriale, cambiando il paradigma di un insegnamento basato sulla lezione frontale con l’introduzione di nuove metodologie didattiche. Una scuola aperta al territorio, aperta tutto il giorno. E poi più docenti in quelle scuole, particolarmente di Italiano, Matematica, Inglese”.

  

Proposte interessanti che sembrano però un tentativo di curare i sintomi e non di andare alle origini del problema. “Il divario nord – sud è storicamente presente in Italia e negli ultimi anni si è ulteriormente aggravato, ma esso riguarda anche altri settori e non solo la formazione – continua la Calvano - è un problema complesso e come tale va trattato. Dovendo sintetizzare, per ridurre i divari nel sistema dell'istruzione occorre investire nel capitale umano. Per troppo tempo si sono create enormi sacche di precariato di docenti senza un percorso chiaro di selezione, formazione, aggiornamento, figuriamoci di carriera. Manca una stabilità nel tempo nella disciplina del reclutamento e un trattamento economico adeguato che porti a un rilancio della scuola. In secondo luogo, la pandemia ha mostrato urgente necessità di risorse per la scuola, ma non mi sembra ci siano stati poi investimenti significativi in questo senso, a parte il Pnrr, le cui risorse non sempre sono ben indirizzate. In ultimo direi che le situazioni particolari (aree con elevata dispersione scolastica; gravi carenze di infrastrutture scolastiche o didattiche etc) andrebbero affrontate con programmi o iniziative specifiche”, conclude la docente.

  

Questo il pensiero della Calvano. Ma forse sarebbe il caso anche di ragionare su altri temi. Docenti, risorse e interventi mirati, ma anche una vera parità tra scuola statale e scuola non statale potrebbe essere d’aiuto, quella che oggi non esiste, se non sulla carta. Per essere più chiari, vi è una parità giuridica ma non economica. I contributi che la scuola paritaria riceve coprono solo una minima parte delle spese, soprattutto gli stipendi degli insegnanti. Favorire una vera parità (gli insegnanti della statale della paritaria dovrebbero essere pagati dal ministero) permetterebbe una maggiore diffusione di istituti su tutto il territorio nazionale, in particolare al sud. Provate a contare quante scuola paritarie ci sono a Milano e quante a Bari o a Palermo. Si innescherebbe una sana concorrenza tra scuole, chiamate a un’offerta formativa di livello, chiara e originale (pena la diminuzione delle iscrizioni).

  

Secondo. Maggiore autonomia per i dirigenti scolastici che possano scegliere il personale, individuare le priorità e impostare un piano costruito sulle esigenze della singola scuola, senza muoversi come un ufficio distaccato del ministero.

  

Terzo. Ripensare l’esame di stato con commissioni completamente esterne che verifichino seriamente le conoscenze, competenze etc. degli studenti, spesso licenziati con immeritati 100 cum lode.

   

Insomma la scuola non può più essere un ammortizzatore sociale dove merito, concorrenza, autonomia, progettualità, investimenti siano parole tabù. Tutte le componenti devono mettersi in gioco e capire che non c’è più tempo da perdere. Il rischio è che quella frattura che ora registriamo tra nord e sud Italia diventi la frattura tra il nostro paese e il resto dell’Europa e del mondo.