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Elogio del 29 agli esami d'università

Sergio Belardinelli

Crescendo ho ribaltato completamente la prospettiva: si tratta di un voto che è una fortuna per lo studente e una sicurezza per il professore

Da ragazzino il numero ventinove evocava in me soprattutto l’anno del nevone sul quale ogni inverno i miei nonni ritornavano coi loro racconti. Neve che aveva raggiunto l’altezza dei portoni delle case, lupi che affamati scendevano a valle fin dentro il paese, animali sbranati, uomini che di sera indossavano il cappotto a rovescio, con i bottoni nella parte posteriore, per essere più pronti ad ingaggiare improbabili lotte con il lupo. Non dimenticherò mai l’eccitazione, il tremore e il piacere che suscitavano in me quei racconti.

Più tardi, alle scuole medie, il ventinove divenne l’anno della grande depressione e dei Patti Lateranensi. Dopo Cristoforo Colombo alle scuole elementari, l’America ritornava nell’orizzonte dei miei pensieri. Non sapevo nulla di economia, non sapevo che esistesse la Borsa di Milano, ma sapevo di Wall Street e del suo crollo nefasto nell’ottobre di quell’anno. Quanto ai Patti Lateranensi, essi rappresentavano uno dei tanti eventi di cui a scuola bisognava parlare senza alcun bisogno che ci capissimo alcunché. In compenso ho vivissimo il ricordo dello sdegno, allora per me incomprensibile, che quei patti suscitavano in mio padre.

Ventinove dunque. Se per tanto tempo questo numero ha evocato in me un anno preciso, da quando sono entrato all’Università ha incominciato a rappresentare soprattutto un voto. Da studente lo consideravo un’infamia, uno sberleffo, un modo subdolo per dirti che, sì, sei bravino, ma non abbastanza per raggiungere la vetta. Passato dalla parte dei professori ho incominciato però a guardare le cose diversamente. Non soltanto nei confronti del ventinove non ho più alcuna ostilità, ma ho imparato a considerarlo con simpatia. Quello che da studente mi sembrava uno sberleffo, ora mi sembra una promessa, un’apertura di credito piena di apprezzamento, uno stimolo a dare il massimo che in genere viene rivolto ai migliori e, soprattutto, la riprova che sto facendo seriamente il mio mestiere. 

A tal proposito confesso che da quando ho incominciato a insegnare nutro una sorta di idiosincrasia nei confronti degli esami; avverto sempre gli studenti che il meglio di me lo avranno a lezione, non certo nelle diverse prove in cui si articolerà la fatidica verifica finale, alla quale farebbero bene a non dare troppo peso. Evidentemente si tratta di un modo di mettere le mani avanti rispetto a un giudizio che non riguarda soltanto loro ma anche me, diciamo pure una captatio benevolentiae un po’ narcisistica e infantile. Sta di fatto comunque che col trascorrere degli anni si impara anche a fare gli esami, a fare in modo che il voto che diamo ai nostri studenti corrisponda il più possibile alla loro preparazione. E qui ritorna la fatidica centralità del ventinove, di sicuro il voto che metto con più ponderatezza. 

Mentre con gli altri voti il problema non sussiste, col ventinove ci vuole sempre un supplemento di riflessione, bisogna essere sicuri che non sia un ventotto, certo, ma soprattutto che non sia un trenta. Non escludo che sia proprio attraverso questo voto che ho imparato a ponderare meglio anche gli altri. In ogni caso oggi il mio apprezzamento nei confronti del ventinove è tale che considero addirittura fortunato lo studente che lo riceve. Non sarà la vetta, ma, essendo vicinissimo, potrebbe essere un buon pretesto per spingere allo sforzo che manca a raggiungerla, oppure per riflettere su quanto essa sia effimera, il più delle volte appesa alle più banali casualità della vita che certamente sono all’opera anche in un esame universitario. Nell’uno e nell’altro caso c’è la possibilità di acquisire un prezioso supplemento di consapevolezza. Per parte mia posso soltanto garantire che quando si tratta di un ventinove non contano nulla le simpatie o gli umori passeggeri del professore. Col ventinove non si scherza. Prima di metterlo bisogna pensarci bene. 

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