(foto Ansa)

diario di un prof

I colloqui online con i genitori, un mondo ridotto a una procedura tecnica

Marco Lodoli

Quello che si perde tra le frasi di sempre e il mondo vero così difficile da raggiungere, capire e abbracciare. Cronaca di un complicatissima gimkana su internet che non rifarei più

Nell’ormai lontana era pre Covid, i colloqui con i genitori erano un’incombenza semplice e a volte anche piuttosto proficua, visto che permetteva di capire in pochi minuti tante cose sugli studenti. Lo scambio di battute seguiva un canovaccio abbastanza fisso, con le solite battute: “Suo figlio Peppino è un ragazzo intelligente, ma dovrebbe applicarsi di più”, oppure: “Peppino rischia di portarsi la materia a settembre, se non si dà una smossa”, ma intanto il professore assorbiva informazioni, inquadrava al volo il padre burbero, la madre svaporata, genitori ansiosissimi o distratti, con problemi economici, familiari, con terremoti in corso o con depressioni striscianti.

Era tutto materiale utile per decifrare meglio certe difficoltà dello studente, per aiutarlo, per stargli più vicino. Oggi i colloqui con le famiglie sono rigorosamente online, e non è per niente facile attivarli e gestirli. Con le professoresse più giovani faccio il galante, mi spaccio quasi per corteggiatore discreto con l’unico fine di farmi spiegare cosa cavolo devo fare per compilare il registro elettronico, per entrare nelle classi virtuali, per definire i moduli e consegnarli. Così ho sorriso a Pamela, le ho offerto un bel caffè e cornetto e lei mi ha assistito con la classe di ricevimento dei genitori. “Devi inserire questo codice qui in questo spazio qui, poi devi andare su Agenda del tuo Registro elettronico e scrivere per bene il codice, poi copiarlo e riproporlo sull’agenda di ogni classe… hai capito? Poco? Faccio io, dai…”.

Alle ore 16 in punto, seduto nel gelo del terrazzo di casa, dato che il resto dell’appartamento era occupato da figli e amici dei figli, da mogli, zie e nonne, mi sono collegato. Saltando dalla posta elettronica personale a quella istituzionale, sono riuscito ad arrivare su Classroom e ad accedere alla “stanza dei colloqui”. Eccomi, ero lì, con il faccione ben inquadrato e le piante grasse alle spalle, pronto ad accogliere i genitori. Cinque minuti, dieci, quindici, non appariva nessuno e l’agitazione mi è salita. Allora col telefonino ho chiesto aiuto nella chat dei prof: “Lodoli, ma hai messo bene il codice? Il secondo codice, non il primo… E hai evidenziato il link?” E io, ormai nel pallone: “Ma dove lo trovo ’sto secondo codice, e il link? Dove sta il link”. Ed ecco che mi arrivano foto e consigli, vai di qua, poi gira di là, a destra, non a sinistra, fotografa, trascrivi, inserisci, comunica… “Ma l’ho fatto, giuro che l’ho fatto, ma non succede niente…”. “Lodoli, stai sbagliando codice… quello non è leggibile dagli studenti, quell’altro invece sì, ma lo devi inserire sotto, non sopra…”. E il tempo passava e io mi sentivo un ferrovecchio, e sul cellulare mi arrivavano messaggi di studenti e genitori che faticavano a entrare nella mia stanza virtuale, ma anche in quelle di altri insegnanti, un labirinto angosciante, un dedalo cieco.

Alla fine, idea salvifica, ho aperto le stanze virtuali di ogni classe e ho comunicato alle famiglie che le aspettavo lì, in quei luoghi evanescenti eppure ormai parti della nostra casa, della nostra vita. Si erano prenotati per i colloqui quattro genitori, una madre l’ho persa per strada, anche lei si è arresa lungo la complicatissima gimkana tra codici e password, altre due madri invece sono riuscito a incrociarle sullo schermo e a ripetere loro le solite frasi, “Bravino Peppino, ma dovrebbe impegnarsi di più…”.   

E poi, da quella lontananza così astratta, mi è arrivato il viso pallido di Arianna, forse la studentessa più brava. “Buonasera professore”, e in effetti intorno a me era quasi buio, “Ciao Arianna. Ma mamma e papà non ci sono? E’ con loro che oggi dovrei parlare…”. E Arianna, un po’ sfocata, la fronte bassa nella luce tremolante di una cameretta persa in uno spazio virtuale, mi ha detto: “Professore, mi dispiace, ma mamma ha dovuto accompagnare papà all’ospedale, oggi è stato male…”. “Ma perché, che cos’ha?” E Arianna, con un filo di voce: “Ha un tumore, oggi è stato proprio male…”. Ci siamo salutati senza poterci stringere nemmeno la mano, senza poter aggiungere altro, galleggiando e svanendo in quella dimensione irreale, traballante, feroce. 

Codici, password, link, accessi criptati, visi che appaiono e scompaiono sullo schermo, un tremendo senso di spaesamento, di impersonalità che svuota la vita: e attorno a questo simulacro, la vita vera che freme, la paura, la malattia, l’amore, l’ansia e le speranze. Attorno a un mondo ridotto a una procedura tecnica, a una finestra su un cortile astratto, c’è il mondo vero, così difficile da raggiungere, da capire, da abbracciare… Mi sono sentito impotente, triste, infreddolito, avrei voluto dire qualcosa e non potevo dire niente.

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