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Plexiglass e non tecnologia. La rivoluzione fallita della scuola post-Covid

Antonio Gurrado

La didattica a distanza è stata attuata in fretta e furia nel corso di una tragedia, per questo è stata identificata come una soluzione emergenziale. Storia di un equivoco

La didattica a distanza è stata un’opportunità, quindi dal prossimo anno scolastico non la sfruttiamo più. Questa è in sintesi l’indicazione emersa dal maxivertice sulla scuola – due ore di videoconferenza, cinquantatré interlocutori – che ha partorito l’obiettivo di riportare tutti a scuola da settembre, per garantire la socialità (“dobbiamo rientrare in presenza, guardarci negli occhi”, ha detto il presidente Conte). Se non che va garantita anche la sicurezza, quindi saranno obbligatorie le mascherine, dai sei anni in su, ma potranno essere utilizzate le visiere (quelle da estetista, per intenderci) per favorire chi ha problemi di respirazione o necessità di leggere le labbra; poi si punterà sulla microedilizia, dall’allestimento di tensostrutture nelle aree esterne degli istituti all’erezione di tabernacoli in plexiglass attorno a ciascun banco.

  

Traspare, da queste decisioni, un’insistenza sulla didattica in presenza come vera didattica che, oltre a svilire il lavoraccio compiuto online dai docenti per tre mesi, finisce per passar sopra al fatto che la presenza fisica forzata possa diventare innaturale. Pensate a come un adolescente potrebbe vivere una socialità in cui è costretto a conciarsi come un saldatore; finirà che non vorrà andare a scuola e magari i genitori grideranno al bullismo istituzionale. La comunicazione a distanza invece per i ragazzi è una forma naturale di espressione e di relazione; per garantire la socialità nella didattica, sarebbe bastato regolamentarla con una transizione morbida al di fuori dell’emergenza.

   

L’emergenza, ha detto Conte, ci ha colto di sorpresa quindi “non è stato possibile organizzare diversamente la resilienza: abbiamo dovuto chiudere gli edifici scolastici”. In questa frase risiede l’equivoco fondamentale sulla didattica a distanza: venendo attuata in fretta e furia nel corso di una tragedia, è stata identificata tout court con la didattica d’emergenza. Non a caso il piano del governo prevede che la distanza torni in auge in caso di recrudescenza del virus. Lezioni dal vivo e lezioni sul web sono state vissute come alternative secche, quando invece dovrebbero coesistere; così come nella vita lavorativa di chiunque coesistono, a vari livelli, le necessità della presenza e le opportunità della distanza. Sarebbe strano se, dopo tre mesi di telelavoro, un’azienda riaprisse gli uffici come se niente fosse al solo scopo di garantire la socialità dei dipendenti, che devono tornare a guardarsi negli occhi. “Il paese da noi si aspetta che a settembre i ragazzi tornino a scuola”, ha detto però la ministra Azzolina, a riprova che la didattica a distanza non è stata considerata davvero “scuola”; per una questione di principio, dunque, si getta alle ortiche una possibilità di sviluppo.

  

Eppure proprio stamane sono stati diramati i risultati di un’indagine condotta da Pearson in Italia e in altre dieci nazioni europee, da cui risulta che l’emergenza ha gettato le basi di una sinergia fra docenti, editori scolastici e Big Tech (Google primeggia fra le piattaforme utilizzate dagli insegnanti, con Classroom, Meet e Gmail). È rilevante notare che, degli intervistati, il 77 per cento ha usato il web per tenere lezioni in diretta, che sostituissero materialmente le lezioni dal vivo, ma solo il 35 per cento vorrebbe continuare a farlo in futuro: è perché hanno cercato di replicare un modello vecchio in un contesto nuovo. Invece circa la metà degli insegnanti ha creato videolezioni e podcast – ossia un modello nuovo adattato al contesto nuovo – e la stessa percentuale desidera continuare a farlo; significa che l’innovazione è andata bene.

  

Certo, l’indagine tiene presente che la didattica a distanza ha causato uno scollamento umano, oltre all’innegabile divario in base alla strumentazione disponibile per gli alunni, ma gli insegnanti intervistati sembrano interpretare come sfida, non come impossibilità, la prospettiva di sopperire a queste mancanze con l’uscita dall’emergenza. Li attrae l’idea di rinnovare, in base alle opportunità di internet, le tipologie di valutazione e l’approccio ai materiali didattici: l’utilizzo della versione digitale dei manuali, per dire, è incrementata d’emblée del 33 per cento, grazie a strumenti come le mappe interattive, che su carta non funzionano. L’indagine rileva, cito, “una formidabile accelerazione nell’adozione degli strumenti e delle tecnologie digitali, segnando una trasformazione da cui non si tornerà più indietro”; questo, almeno, prima che la componente chiave della scuola venisse individuata non più nel web ma nel plexiglass.