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Cattivi scienziati

Perché la comunità scientifica non rimedia alla crisi della pubblicazione scientifica?

Enrico Bucci

I ricercatori producono dati e risultati, poi sottomettono lavori e li valutano. Tutto gratis, a fronte di un costo elevato per accedere a quanto i propri colleghi hanno pubblicato. E tutto in presenza di un degrado qualitativo sempre più evidente, legato a ragioni di mercato

A seguito dell’ennesimo caso di pseudoscienza pubblicato su una rivista scientifica e segnalato su queste pagine, alcuni lettori mi hanno rivolto la domanda che, in assoluto, risuona più frequentemente quando parlo della questione: se il problema alla base dell’esponenziale crescita di pubblicazioni erronee, false o anche semplicemente inutili è così chiaramente identificato e consiste in un meccanismo di incentivi alla pubblicazione profondamente erroneo, innescato principalmente dalla valutazione bibliometrica del “merito” dei ricercatori, e se la stessa comunità scientifica da tempo ha ormai denunciato tale deformazione, perché la crisi persiste e si approfondisce?
 

Perché, cioè, i ricercatori non riescono a sottrarsi dall’essere contemporaneamente i produttori della materia prima, i valutatori e i “compratori” di quanto pubblicano, alimentando un mercato dell’editoria scientifica che ha ritorni incredibili perché basato sul parassitare il lavoro largamente gratuito della comunità accademica a fronte di costi bassissimi, mercato promosso grazie soprattutto al perverso meccanismo della valutazione bibliometrica, nonostante ormai sia largamente condiviso nelle accademie e fra i ricercatori il giudizio negativo su questo stato di cose?
 

Qual è, cioè, la vera ragione di questa sorta di “sindrome di Stoccolma” che vede la comunità scientifica nel ruolo di vittima legata al suo aguzzino, l’editoria scientifica, senza che si riesca nemmeno a evitare gli aspetti più negativi, dal lavoro gratuito per le riviste fino – soprattutto – al proliferare di ogni sorta di pubblicazione farlocca, persino acquistabile da apposite aziende cartiere, e poi regolarmente pubblicata anche su riviste che non appartengono al novero di quelle riconoscibilmente predatorie?

Il punto è che, in realtà, la comunità scientifica globale non è semplicemente vittima della strutturazione attuale del processo di pubblicazione scientifica, ma vi si è adattata e lo utilizza a scopi suoi propri, ignorando o trascurando in nome di un preciso vantaggio il danno causato dalla degenerazione qualitativa di ciò che si pubblica, dalle frodi, dai falsi di ogni tipo. Qual è dunque il vantaggio che la comunità scientifica trae dal lavorare nei comitati editoriali, pur gratuitamente, e dall’esistenza di un processo valutativo basato sull’impatto citazionale, e dunque sul numero di pubblicazioni?
 

La cosa è abbastanza evidente: la comunità scientifica ha, da sempre, utilizzato diversi meccanismi di gatekeeping, sia per proteggere sé stessa dall’invasione di ciarlatani, pseudoscienziati e in generale individui estranei alla logica e al metodo scientifico, sia anche però per controllare e contrattare la propria struttura gerarchica interna.
 

Nel tempo, si è passati dai meccanismi consistenti nel riconoscimento da parte di “club” ristretti di individui – le società scientifiche – a un meccanismo basato invece sulla visibilità e sulla carriera a mezzo di pubblicazione scientifica; di conseguenza, controllare chi e che cosa pubblica è il mezzo principale attraverso cui si mantiene il controllo sulla propria comunità, evitando che chiunque sostenga una qualunque tesi sia allo stesso livello di chi, avendo approfondito una questione e raccolto prove a sufficienza, arriva a pubblicare.
 

Per salvare questo tipo di funzione di gatekeeping, ci si illude che sia necessario mantenere le cose come stanno, cercando di difendersi alla meglio dall’esplosione quantitativa degli articoli scientifici e dal conseguente compito ormai sempre più disperato di valutarli approfonditamente prima della pubblicazione; ma questo sta riducendo le pagine di riviste anche prestigiose sempre più alla stregua di “social forum” della scienza, cioè di lavagne ove è possibile scrivere anche le cose più infondate e balzane,  che, in presenza dello tsunami di carta sempre più inquinato da frodatori individuali e filiere industriali del falso, sfuggono per ragioni statistiche al controllo dei sempre più insufficienti revisori.
 

Alla fine, il valore della pubblicazione scientifica si sta sempre più diluendo; e non passerà molto tempo, prima che sarà chiaro che essa non potrà più essere usata per certificare l’avvenuta scoperta di un nuovo risultato nel modo che oggi si dà per scontato. A quel punto, forse, si abbandonerà finalmente la pretesa di usare la pubblicazione come metro di merito scientifico, senza leggerne il contenuto; e con questo sarà distrutta la stessa funzione di gatekeepers dei comitati editoriali, impossibile a mantenersi a meno di voler tenere in piedi un sistema di valutazione bibliometrica completamente svincolato dal merito scientifico reale.
 

Si può rimediare a questa situazione? Certo che si può, e molte soluzioni sono state già individuate; ma resta un punto fondamentale, che è bene tenere sempre a mente.
 

Qualunque cosa sia appena pubblicata, è per la prima volta visibile a larga parte della comunità scientifica; dunque, in nessun caso, una pubblicazione scientifica potrà aver gran merito, prima che un congruo numero di esperti del settore ne abbiano giudicato rilevanza, consistenza e solidità. La pubblicazione scientifica, cioè, è e deve tornare a essere considerata una forma di comunicazione di un nuovo risultato, non una sua certificazione; se ha rilevanza solo il tempo e la comunità scientifica che la assume possono dirlo, non certo un indice bibliometrico legato alla rivista su cui appare o altri simili indicatori.

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