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Cattivi scienziati

l'Evoluzione per salti secondo Stephen Jay Gould

Enrico Bucci

Può un organismo che si nutre di zuccheri sviluppare, nell’arco di una sola generazione, la capacità di sfruttare la luce per la fotosintesi? Un nuovo esperimento illustra plasticamente come le innovazioni evolutive possano avvenire ricombinando fra loro pezzi presenti in organismi diversi

Cosa serve per compiere un grande salto evolutivo, tale che un organismo cambi in una sola generazione in un modo davvero molto ampio? La risposta che farebbe felice Stephen Jay Gould, alfiere dell’evoluzione punteggiata (ovvero caratterizzata da improvvisi salti di diversità, molto importanti), è arrivata in un nuovo studio appena pubblicato: basta che un singolo gene sia trasferito attraverso meccanismi ben presenti in natura da un organismo a un altro, per avere un cambiamento che in linea di principio equivale a dotare un animale della capacità di attuare la fotosintesi, come le piante.

La cosa è stata dimostrata nell’amico dei panettieri e dai birrai, il “lievito di birra” Saccharomyces cerevisiae, in un nuovo lavoro appena pubblicato. Ma facciamo un passo indietro. Esiste in natura una famiglia di geni molto diffusi, che sono in grado di produrre un particolare tipo di proteine, dette rodopsine: sono macchine cellulari in grado di catturare un fotone e cambiare di forma. Questo cambio di forma può essere usato per scopi diversi: nei nostri occhi, serve ad attivare una risposta in altre proteine, che alla fine porta al rilascio di glutammato e alla “partenza” di uno stimolo nervoso dal nostro occhio, ma in molti batteri serve invece ad accumulare protoni all’interno della cellula, così da creare una differenza di potenziale chimico convertibile in energia utile alla cellula – non diversamente dal potenziale chimico accumulato nelle batterie che noi usiamo per generare energia elettrica da questa e lavoro utile.

Proprio per la loro abilità nel catturare fotoni della luce solare, cambiare forma e attivare meccanismi diversi, le rodopsine sono largamente diffuse tra gli organismi viventi: a partire dai batteri, in cui hanno avuto origine, esse sono state trasferite a organismi diversissimi (tra cui i nostri antenati), per mezzo di molti di quei meccanismi di scambio di materiale genetico di cui più volte su queste pagine abbiamo illustrato qualche esempio.

Ora, bisogna sapere che le cellule del lievito di birra accumulano energia chimica riempendo vacuoli specializzati – cioè piccoli organelli membranosi chiusi, dei “palloncini” simili a liposomi presenti dentro la cellula – di protoni, attraverso proteine specializzate che utilizzano gli alimenti per ricavare l’energia necessaria a compiere questo lavoro.

I ricercatori del lavoro che qui si discute si sono quindi posti una domanda in sé molto semplice: cosa accadrebbe se si prendesse una di quelle rodopsine in grado di assorbire fotoni e pompare protoni nella cellula batterica, e la si trasferisse nel lievito di birra? I vacuoli delle cellule di lievito, una volta che la rodopsina in questione vi si ancora, sarebbero in grado di accumulare protoni al loro interno assorbendo luce, invece che sfruttando il normale meccanismo di “digestione” degli zuccheri per ottenere l’energia necessaria a fare quel lavoro?

Detto fatto: sfruttando uno dei tanti meccanismi di trasferimento del DNA tra organismi viventi, presente anche in natura, il gene della rodopsina di un fungo con le proprietà giuste è stato trasferito in Saccharomyces cerevisiae, il lievito dei mugnai e dei birrai. Una volta dotato di rodopsina, che si è spontaneamente localizzata sui vacuoli, il lievito cresceva circa il 2% più velocemente quando era esposto alla luce, un enorme vantaggio in termini evolutivi.

Pensateci bene: un solo gene, senza nessun particolare adattamento al suo ricettore né precauzione o accortezza nel modo in cui è stato trasferito al lievito è stato sufficiente a trasformare un organismo eterotrofo, cioè dipendente da cibo esterno come fonte unica di energia, in un autotrofo facoltativo, cioè in grado di sfruttare anche la luce solare, come le piante, per la propria crescita. Evolutivamente, è un salto enorme, dal quale potrebbe sortire un’intera classe di nuovi organismi, grazie a un singolo evento di trasferimento orizzontale di DNA, come quelli che casualmente avvengono in numero stratosferico ogni giorno sul nostro pianeta.

Meno di anno fa, è stata pubblicata la dimostrazione su Nature di come lo stesso identico lievito può, in meno di 3000 generazioni, dare origine a colonie pluricellulari macroscopiche, dimostrando l’emersione spontanea dell’associazione multicellulare nelle condizioni opportune; ma il nuovo lavoro, che implica un profondo cambio metabolico ed ecologico, è ancora più sorprendente nella sua semplicità perché, seppure il cambio osservato non è avvenuto spontaneamente, dimostra davvero quale sia la plasticità degli organismi monocellulari ancora viventi sul nostro pianeta, e come i passaggi apparentemente più rivoluzionari possano avvenire davvero in pochissimo tempo, se le condizioni opportune – eventi fortuiti e selezione – si verificano.

Almeno in alcuni casi, le rapide transizioni evolutive, cioè gli improvvisi “salti” che punteggiano l’equilibrio ecologico e promuovono l’evoluzione secondo Gould, appaiono quindi davvero possibili: salti di tale entità, da permettere a un consumatore di zuccheri la fotosintesi, e a un organismo unicellulare di sviluppare insiemi multicellulari complessi.

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