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Cattivi Scienziati

Perché il professor Palù sbaglia a banalizzare quando parla di Covid

Enrico Bucci

"Finiamola di mettere paura alla gente”, ha detto in una recente dichiarazione il presidente di Aifa, giustificando la sua affermazione con un ragionamento sbagliato dal punto di vista biologico ed epidemiologico. Chi ricopre ruoli istituzionali dovrebbe evitare di risultare sciatto e impreciso

Aiutatemi a capire. Davvero non riesco a farmi capace di come sia possibile che chi dovrebbe, per titoli, posizione e ruolo istituzionale documentarsi e usare la prudenza parlando di argomenti scientificamente incerti, risulti almeno – come dire – sciatto nelle sue dichiarazioni circa SARS-CoV-2, la sua evoluzione e i rischi connessi. In una dichiarazione rilasciata all’Ansa il 31 agosto da parte del professor Palù trovo per cominciare quanto segue: i casi di Covid “aumentano e forse aumenteranno ancora, sono comunque forme lievi, ma non crescono i ricoveri in ospedale”. Non è assolutamente così: a iniziare da circa metà luglio e per tutto agosto, le ospedalizzazioni sono cresciute, con quel classico inizio di fase esponenziale che siamo ormai ben abituati a conoscere; vedremo come evolverà la situazione questo autunno, ma di certo è falso che i ricoveri non crescono.

Fin qui, potremmo pensare a sbadataggine, anche se, visto il ruolo istituzionale di chi ha rilasciato la dichiarazione, la cosa non è certo rassicurante; ma il peggio è nel seguito. “C’è una relazione inversa tra contagiosità e mortalità” - ha detto ancora Palù – “il virus non può permettersi oggi di essere più patogeno perché equivarrebbe all’estinzione. Il Sars-CoV-2 ha avuto bisogno di adattarsi all’uomo e diventare endemico. Quindi, finiamola di mettere paura alla gente”.

Cominciamo dalla prima frase: nei corsi elementari di epidemiologia, si insegna che la mortalità di un patogeno è il rapporto fra il numero di morti causati da quel patogeno e la popolazione media totale in un certo periodo di interesse. Quindi, più un virus è contagioso, più è mortale, come abbiamo imparato a nostre spese durante la diffusione della variante Omicron di SARS-CoV-2. Diciamo poi che se, fra i soggetti infettati, si osservano molti morti, il virus è molto letale; ma finché la letalità non intralcia l’ulteriore diffusione del contagio, per esempio perché uccide con molto ritardo rispetto alla fase asintomatica in cui può propagarsi, in presenza di una popolazione di miliardi di ospiti non c’è nessuna relazione inversa fra contagiosità e letalità (la mortalità non c’entra nulla). Anzi, a seconda della biologia del patogeno, in certi casi, come nella myxomatosi dei conigli australiani, un’alta letalità favorisce il contagio, perché il virus è diffuso dalle mosche che si nutrono sugli animali morti; e in altri casi, come appunto quello di SARS-CoV-2, la molteplicità di specie ospiti significa che il virus può teoricamente distruggere anche l’intera popolazione di una specie, semplicemente passando ad ospiti diversi quando la popolazione di uno è molto rada. Stesso discorso per un parassita non virale, quello della malaria grave, Plasmodium falciparum.

Che “il virus non può permettersi di essere più patogeno perché ciò equivarrebbe all’estinzione” è quindi la sempiterna insensatezza circa il rabbonimento virale, sbagliata in aggiunta perché ci si dimentica dei molteplici esempi – oltre il 99 per cento di qualunque cosa sia mai vissuta – di estinzione, in barba al potersi permettere o meno qualcosa. Le specie non hanno alcun piano, neppure la sopravvivenza, che è solo una caratteristica derivante da certe leggi specifiche: gli individui si riproducono e come conseguenza le popolazioni e le specie sopravvivono, e finché questo accade noi le osserviamo, e poi si estinguono, senza nessuna teleologica previsione circa il proprio futuro.

“Il Sars-CoV-2 ha avuto bisogno di adattarsi all’uomo e diventare endemico.” È l’ultima, consequenziale perla fra le dichiarazioni citate: nessun virus “ha bisogno” di adattarsi e diventare endemico, ma semplicemente l’ambiente in cui si trova ad esistere cambia – particolarmente dal punto di vista immunologico – e di conseguenza le vastissime popolazioni che costituiscono in un dato momento una quasispecie virale si adattano, cioè si replicano più efficientemente dei propri predecessori sotto le mutate condizioni ambientali. Se domani una nuova variante altamente immunoevasiva dovesse portare ad una nuova, ampia ondata di contagi, innanzitutto la mortalità da COVID-19 crescerà – altro che relazione inversa – e in secondo luogo non è per nulla detto che ci troveremo di fronte a varianti meno letali delle ultime in soggetti mai esposti prima; semplicemente, avremo un muro immunitario più o meno alto, che ci proteggerà più o meno bene, secondo le caratteristiche di ciò che abbiamo incontrato finora, fra virus e vaccini, e ciò che emergerà in futuro.

È tutto semplice e cristallino, a un livello tale che ci si chiede perché si voglia a tutti i costi insistere su certe posizioni superate nell’istante stesso in cui fu pubblicata l’”Origine” di Darwin. Da queste considerazioni elementari deriva la necessità di non abbandonare né la sorveglianza né la profilassi contro SARS-CoV-2 e contro qualunque altro virus, per cui strutture, finanziamenti e personale in un paese di pur modesta capacità politica dovrebbero essere mantenute in massimo grado.

Invece, questo è il paese dove si parla antropomorficamente di “bisogno di diventare endemico” di un mucchietto di atomi organizzati in un replicatore biologico, e si dice che in ragione di quello bisogna finirla di “mettere paura alla gente”. Ma forse l’unica paura che bisognerebbe davvero finire di avere è quella di aprire un libro di biologia evoluzionistica, leggerne almeno l’introduzione e poi riflettere prima di dire certe cose.

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