Le grotte di Altamira, nel nord della Spagna, conservano pitture rupestri risalenti al Paleolitico (Ansa) 

In principio fu la parola

Homo sapiens, il mascalzone che riuscì a conquistare il mondo

Roberto Volpi

Povera la nostra specie, accusata a un tempo di distruggere il pianeta e di non essere niente di speciale dal punto di vista evolutivo. Eppure la sua capacità simbolica ha compiuto meraviglie

Dice Ian Tattersall, forse il massimo paleoantropologo vivente, aperte virgolette: “Fino a 40 mila anni fa avremmo potuto osservare un mondo percorso da più specie umane. Poi qualcosa è cambiato. Homo sapiens è diventato una specie inusuale e competitiva, intollerante nei confronti di qualsiasi rivale, incapace di convivere con altre forme umane. Li abbiamo eliminati tutti, così come adesso stiamo estinguendo scimpanzé, gorilla e oranghi”. Chiuse virgolette. Qui, in queste parole, tratte da un’intervista rilasciata a marzo di quest’anno a Telmo Pievani, c’è un salto nell’interpretazione del cammino evolutivo di sapiens. Un salto a tutta prima inatteso, in quanto teorizzato dal paleoantropologo che aveva senza tema affermato in “I signori del pianeta” (Codice Edizioni, 2013) che “con la comparsa sulla Terra di Homo sapiens anatomicamente moderno si era presentato sulla scena un essere del tutto nuovo”. Per la verità Tattersall aveva già calcato sul fatto che “abbiamo fatto apparire la nostra specie più centrale per la storia evolutiva della nostra famiglia di quanto sia appropriato a quella che in realtà è soltanto una propaggine terminale di un grosso cespuglio ben ramificato”. Invitandoci di conseguenza a “liberarci una volta per tutte della persistente nozione che noi siamo il risultato finale, non importa se perfetto o meno, di un processo di miglioramento costante”.  Ma, siamo onesti, non c’è più un solo evoluzionista neodarwiniano che non premetta a ogni suo ragionamento affermazioni come queste, sperticatamente tese a toglierci dalla testa l’illusione di crederci il centro, per giunta in quanto predestinati, della vita sulla terra.  

Aveva cominciato Jacques Monod, che aveva un’autentica ossessione per quella che lui chiamava teleonomia, a mettere in guardia l’uomo dal credersi il frutto di un disegno finalistico. Dopo di lui, non si è più smesso di battere su questo tasto. Ma, dicevo, l’affermazione di Ian Tattersall segna una sorta di svolta perché va ben oltre il seguente, accettabile e tutto sommato accettato, sillogismo: 1) la Terra è stata abitata fino a non troppe decine di migliaia di anni fa da diverse specie di Homo contemporaneamente; 2) dopo che sapiens ha colonizzato la Terra non è rimasta nessun’altra specie di Homo; 3) dunque proprio la progressiva colonizzazione del mondo da parte di sapiens può aver determinato la scomparsa delle altre specie di Homo. 

  

L’eliminazione delle altre specie di “Homo” sarebbe avvenuta non con la guerra ma attraverso un trattamento simbolico delle informazioni

  

La scomparsa delle altre specie di Homo per Tattersall sarebbe infatti dovuta a una sorta di vocazione eliminazionista da parte di sapiens soddisfatta, attenzione, non con strumenti di guerra quanto piuttosto attraverso un trattamento particolare delle informazioni, un trattamento che Tattersall definisce simbolico, di cui solo sapiens è capace e che può anche sfociare, ove dal suo punto di vista se ne veda il bisogno, proprio in guerre e annessi strumenti di guerra. Quello stesso trattamento simbolico delle informazioni servendoci del quale noi sapiens moderni staremmo per assestare il colpo di grazia anche agli altri primati, dopo avere estinto nel passato ogni altra specie di Homo presente sulla Terra come, oltre ai Neanderthal, i Denisova, una specie grosso modo contemporanea dei Neanderthal che viveva in Asia centrale. 

  

Anche David Quammen, autore di “Spillover”, dà una versione della pericolosità di “sapiens” per i destini delle altre specie e della vita sulla Terra

  

Al biologo genetista Svante Paabo è stato conferito nel 2022 il premio Nobel per la medicina per avere, in una ricerca in cui è riuscito con la sua equipe a estrarre il Dna da un osso di Neanderthal, scoperto che sapiens ha nel suo Dna il 2 per cento di Dna neandertaliano. Dunque ci sono stati degli incroci anche di natura sessuale tra i Cro-Magnon, i sapiens europei cosiddetti per i resti rinvenuti nel sito omonimo, e i neandertaliani che hanno con-vissuto con loro in Europa per 7-10 mila anni. Ma la ricerca non chiarisce come ciò sia successo, né i motivi dell’estinzione dei Neanderthal. Qualcosa di simile potrebbe essere avvenuto in altre regioni del globo nel corso della grande diffusione di sapiens. Il fatto che sapiens sia rimasta l’unica specie di homo vivente spinge in direzione di una concezione cruenta del successo in virtù del quale sapiens si è diffuso ai quattro angoli della Terra, colonizzandola. Una versione più rivolta all’oggi della pericolosità di sapiens per i destini delle altre specie e della vita stessa sulla Terra è quella di David Quammen, giornalista scientifico del National Geographic, autorità indiscussa nel campo delle zoonosi, vincitore dei premi scientifici più prestigiosi. Nel 2020, e non si tratta certo di una coincidenza, alla riedizione italiana del suo fortunato saggio “Spillover” del 2012 che parla di virus ed epidemie, passate presenti e pure future, che già tanti consensi aveva ricevuto, ha pensato bene di premettere questa dichiarazione dalla quale l’editore ha pensato bene a sua volta di ricavare una fascetta che spiccava in rosso sul nero della copertina del libro. “Siamo stati noi a generare l’epidemia di coronavirus. Potrebbe essere iniziata da un pipistrello in una grotta, ma è stata l’attività umana a scatenarla”: questa la dichiarazione, questa la fascetta che avrebbe dovuto invogliare chi ancora non aveva comprato il libro a farlo, a distanza di anni dall’uscita della prima edizione italiana (Adelphi, 2014). E’ una dichiarazione che contiene un fondo di verità assieme a una ben più evidente esagerazione. Ma è senz’altro una dichiarazione molto furba, attenta a cavalcare lo spirito dei tempi al quale l’autore ha dato e continua a dare il suo piccolo ma autorevolissimo contributo.

Forse non intendeva cavalcare lo spirito dei tempi l’allora vescovo di Rieti, eppure andava dritto a rafforzarlo con le sue parole che riassumevano un’opinione ormai largamente condivisa anche dai cattolici. “Il terremoto non uccide, uccidono le opere dell’uomo”, disse con voce emozionata e ferma a un tempo il 31 agosto 2016 in occasione dei funerali delle vittime del terremoto di Amatrice: una affermazione netta, consapevole, pressoché definitiva, la spia forse più eclatante anche perché inattesa di quanto, nel nostro mondo, nel nostro tempo, sia cambiata la visione dell’uomo e della sua opera. Non sono, evidentemente, quelle del vescovo di Rieti le parole di un ministro di Dio che non crede in Dio: sono, tutto il contrario, le parole di un ministro di Dio che intende, con esse, interpretare fedelmente e profondamente, per quanto può essere possibile a un uomo, fosse pure un vescovo, il suo volere. Bei soggettini che siamo, o che saremmo, secondo il pensiero neodarwiniano (e non solo) dominante, noi sapiens. Pensiero che ci vuole sì ridotti alla stregua di un ramoscello terminale del rigoglioso cespuglio della vita, ma ramoscello infido, velenoso, capace di intossicare in modo letale tutto o quasi quel cespuglio. Sempre che non si corra ai ripari. E chi dovrebbe correre ai ripari per evitare che facciamo danni incommensurabili non più riparabili? Sempre noi, ovviamente, i cattivi, i sapiens. O se non proprio cattivi i senza scrupoli, i competitivi, gli intolleranti sapiens. Qui è la contraddizione chissà se e quanto risolvibile: siamo insieme la minaccia estrema, giacché intolleranti nei confronti di tutti gli altri, e il suo antidoto, la sua cura – in virtù di quale nostra caratteristica positiva è però assai difficile da capire proprio stando al pensiero, così critico nei confronti di sapiens, degli evoluzionisti neodarwiniani.

Occorre a questo punto far notare come la posizione di estremo e incontrollato dominio che sapiens è riuscito a conquistare sulla Terra, e su tutto ciò che di vitale esiste sulla Terra, e che tanto allarme desta, si accompagni all’umiltà oscura delle sue origini. Dice Stephen Jay Gould, biologo e paleontologo di prima grandezza e certamente il più grande divulgatore di tutti i fenomeni e gli aspetti dell’evoluzione della vita sulla Terra, morto nel 2002 a poco più di sessant’anni quand’era nel pieno del fulgore intellettuale: “Anche se da allora si sono svolti eventi interessanti e spettacolari come la diffusione dei dinosauri e la comparsa dell’intelligenza umana, non è esagerato affermare che la storia successiva della vita animale consiste in poco più che semplici variazioni su temi anatomici già apparsi durante l’esplosione del Cambriano, in un arco di tempo di soli cinque milioni di anni. Tre miliardi di anni di unicellularità, seguiti da cinque milioni di anni di intensa creatività, a cui si aggiungono oltre 500 milioni di anni di variazioni su temi anatomici ben stabiliti, possono difficilmente essere interpretati come una tendenza prevedibile, inesorabile o continua verso il progresso o una crescente complessità”. Non solo dunque non veniamo, noi sapiens, al culmine di un aumento progressivo della complessità dei viventi; non solo non siamo il risultato ultimo e tutto sommato designato di questa complessità, come ci piace considerarci; siamo piuttosto – ecco la verità che fatichiamo a riconoscere, che allontaniamo da noi come l’amaro calice di una consapevolezza troppo deprimente – una semplice variazione sui temi anatomici affermatisi oltre 500 milioni di anni fa, nel Cambriano. Anche se da allora la comparsa dell’intelligenza umana, al pari della diffusione dei dinosauri, è un evento “interessante e spettacolare”, concede Jay Gould, regalandoci en passant due aggettivi che, scientificamente parlando, nel loro genericismo valgono piuttosto poco che molto. 

  

Il neodarwinismo si rifiuta di stilare qualsivoglia classifica delle specie in base alla loro complessità, tutte hanno la stessa “dignità”

  

Siamo pericolosi, abbiamo fatto piazza pulita di tutte le altre specie della famiglia Homo, ci accingiamo a sterminare gli altri primati, rappresentiamo una minaccia costante e incombente per la vita di tante se non di tutte le specie esistenti; nostra è, riassumendo ogni possibile considerazione al riguardo, la responsabilità tanto dei morti delle pandemie come dei disastri ecologici. Eppure non siamo che una variazione su temi anatomici affermatisi 500 milioni di anni fa mentre la nostra intelligenza è sì un evento “interessante e spettacolare”, ma niente di più. Del resto, sempre Ian Tattersall provvede a conferire agli inizi del cammino di sapiens un tocco di inesorabile realismo: “In termini culturali, sembra che il regno di Homo sapiens sulla Terra sia nato più con un sussurro che con un forte boato”, dal momento che nei luoghi della sua comparsa “gli strumenti litici trovati non hanno nulla di spettacolare” e “la popolazione fondatrice non soltanto era africana, ma era anche molto piccola”.  

 

Dettaglio dalla serie di dipinti “L’età della pietra” di Viktor Vasnetsov, 1882-’84 (Wikipedia) 
  

Il neodarwinismo si rifiuta categoricamente di stilare qualsivoglia classifica delle specie in base alla loro complessità, la specie più complessa ha la stessa “dignità” esatta, per esso, della specie meno complessa. La specie più semplice è perfettamente adattata all’ambiente, al punto che l’ambiente stesso si giova di questo adattamento? Ecco ciò che conta davvero, che l’evoluzione abbia creato questa simbiosi, e i modi in cui vi è riuscita. Non per niente il neodarwinismo è approdato a quell’autentica, e sia pure indiretta, interpretazione della vita che si concentra nella frase apodittica di Jay Gould, praticamente una sentenza: “E’ sempre l’età dei batteri”. Il minimo livello della complessità rappresentato dai batteri, ecco dunque la lezione da mandare a memoria, si accompagna a una garanzia di continuità dell’esistenza che il massimo della complessità non garantisce affatto a sapiens.

   

 “L’uomo non ha più simpatia per sé stesso, preferirebbe ritirarsi, affinché la natura ritorni sana”, annotava Ratzinger nel 1981

  

Ma qui casca l’asino, perché a furia di sottovalutarne l’essenza più intima e peculiare, Homo sapiens evapora, svanisce. E di lui rischia di non rimanere che la faccia truce: l’avidità, lo spirito di rapina, l’intolleranza che, unitamente al narcisismo, lo hanno spinto fino all’ultima deriva dell’incombente apocalisse ecologico-climatica nella quale se ancora non siamo precitati del tutto, e con noi la vita e il pianeta, poco ci manca. Siamo di fronte a una evidente mancanza di equilibrio. Quando concentra lo sguardo su sapiens, il pensiero evoluzionistico neodarwiniano è come se si annebbiasse, perdesse sottigliezza la capacità di ragionamento, i giudizi si facessero grossolani. Quella che esce di sapiens, dopo un simile trattamento, è l’immagine artefatta di un autentico mascalzone pronto a sprofondare all’inferno, e tutti con lui in un mortale abbraccio, pur di fare il suo interesse più immediato. “Va prendendo piede”, annotava con amarezza Joseph Ratzinger già nel lontano 1981, in una predica quaresimale tenuta nella Cattedrale di Nostra Signora di Monaco, “un nuovo atteggiamento non meno deleterio, un atteggiamento che vede l’uomo come un guastafeste che rompe tutto e che è il vero parassita e la vera malattia della natura”. E continuava: “L’uomo non ha più simpatia per sé stesso, preferirebbe ritirarsi, affinché la natura ritorni sana”. Salvo che, concludeva, “in questo modo non guariamo la natura, bensì distruggiamo noi e con noi il creato”. 

Parole profetiche, sol che si pensi che sono state pronunciate oltre quarant’anni fa. La natura buona e gli uomini cattivi è una visione che non è del cristianesimo e del cristiano – è perfino pleonastico sottolineare.  Nella visione cristiana non c’è un creato senza l’uomo e il suo intervento. Il creato è per l’uomo. La speranza del creato è nell’uomo, il cui operato può ben essere sbagliato e a volte pure truffaldino e miope, risponde a impulsi e desideri gretti e smodati che non fanno il bene del creato. Ma l’uomo al fondo di sé, nell’intimo del suo essere sa che la terra è la sua casa e, tra pause ed errori, tra colpevoli e gravi dimenticanze e sottovalutazioni, tende con la sua azione a proteggerla. Tende a proteggerla anche dalla stessa natura che non è in sé né buona né cattiva, da quella natura che non si limita a provocare terremoti o glaciazioni ma che da quando esiste il mondo ne ha fatte letteralmente di cotte e di crude, fino a sterminare quasi al gran completo e per non meno di cinque volte – quando l’uomo non era neppure all’orizzonte dell’orizzonte – pressoché tutto ciò che sulla terra si muoveva, viveva e respirava. E se la terra avrà un futuro, non c’è dubbio che lo dovrà all’uomo, perché fuori dall’uomo il creato, per citare ancora Ratzinger, non ha speranza. 

 

L’ambientalismo non può non appoggiarsi su una ritrovata simpatia per le opere dell’uomo, se vuole combinare qualcosa di buono 

   

Ed eccoci allora alla perfetta contrapposizione tra due concezioni di sapiens. Prima concezione: un mascalzone che finirà per completare la sua opera sterminando, dopo le altre specie di Homo, anche i primati, e precipitando il mondo nella catastrofe dell’impazzimento ecologico-climatico. E’ possibile scorgere i prodromi di questa concezione già alla fine degli anni Sessanta del secolo passato, quando sempre i biologi paventarono – e scrissero biblioteche di volumi con previsioni quasi al gran completo sbagliate – la cosiddetta “population bomb”, dal titolo azzeccatissimo apposto sopra un libro in verità assai mediocre, dell’entomologo statunitense Paul R. Ehrlich. Seconda concezione: un essere chiamato a ritrovare la simpatia per se stesso, per le sue opere, perché senza di lui il creato non ha speranza. Da quale parte stia l’ambientalismo à la Greta Thunberg non è ancora chiarissimo, e non è neppure scontato che abbracci la prima concezione. La cosa certa è che non può non appoggiarsi alla seconda, se vuole combinare qualcosa di buono.

  

Abbiamo maestosamente affrescato le grotte di Lascaux e Altamira già 13-15 mila anni fa. Un linguaggio sconosciuto ai Neanderthal

  

Una contrapposizione tra due concezioni di sapiens che pure parte da una premessa comune, la più fondamentale di tutte: sapiens è l’unico essere, l’unico vivente mai apparso sulla Terra dotato da un lato di un compiuto linguaggio di parole e dall’altro del pensiero simbolico-astratto al quale solo un compiuto linguaggio di parole può portare. Neanderthal, per stare alla specie che ci è anche cronologicamente più vicina, non ha mai tracciato, per quel che ci è dato sapere, neppure un segno con la selce su un sasso, un masso, una parete rocciosa – non, almeno, con l’intento di rappresentare qualcosa che non è quel segno ma da quel segno viene evocato, richiamato, interpretato. Sapiens ha maestosamente affrescato, facendone vere e proprie cappelle sistine che ancora oggi destano in noi un’ammirazione e un’emozione profondissime, le grotte di Lascaux, Altamira e altre ancora già 13-15 mila anni fa, al culmine dell’esplosione creativa di un talento umano che non ha niente di minimamente paragonabile.

  

Un solo aminoacido farebbe di una normale proteina una proteina “super” al punto da consentire la superiorità del nostro cervello

  

Eppure anche dietro a questo comune punto di partenza si cela una divergenza di vedute tale da illuminare di una luce ben diversa tanto la natura che il cammino di sapiens fino a noi. Alla base dell’incommensurabile superiorità di sapiens non ci sarebbe altro, per la scienza, che un gene – TKTL1 – che sovrintende alla produzione di una proteina che ha a che fare con lo sviluppo del cervello e della complessità delle sue reti neurali. Bene, questo gene, comune tanto a sapiens che a Neanderthal, in sapiens è mutato per un dettaglio minimo – niente di più di un aminoacido – ma capace di modificare quella proteina in modo tale da consentire alla neocorteccia cerebrale responsabile delle funzioni cognitive di crescere in dimensioni e densità. Le umili e oscure origini di sapiens sul lato eco-ambientale descritte da Ian Tattersall diventano su quello genetico, nella ricerca condotta da un’equipe di cui faceva parte il già citato Svante Paabo, se possibile ancora più umili: un aminoacido, un solo aminoacido, che noi abbiamo e tutti gli altri no, che fa di una normale proteina una proteina “super” a tal punto da consentire tutta la superiorità del nostro cervello. A stringere, questa sarebbe la ragione per cui noi sapiens abbiamo affrescato Lascaux e Altamira mentre Neanderthal e Denisova non hanno lasciato neppure un segno simbolico su una pietra.

Questo dice la scienza. E chi siamo noi per dubitare della scienza? (Veramente dei risultati della scienza si dovrebbe innanzi tutto dubitare, come insegnava Karl Popper sulla falsificabilità di scoperte e teorie scientifiche – lezione soffocata peggio di un neonato in culla dallo scientismo moderno). Ma a fronte di questa causa genetica si colloca un modo diverso di guardare all’origine e al cammino evolutivo di sapiens. Nei biologi e genetisti evoluzionisti neodarwiniani c’è sempre una mutazione del Dna, un “prima genetico”, a scatenare miglioramenti nelle capacità adattative, non solo di sapiens. Eppure non c’è un gene o un gruppo di geni a cui si può imputare la nostra capacità/volontà – chissà in quale misura imposta da mutate circostanze ambientali – di scendere dagli alberi, cominciando quella differenziazione di specie rispetto ai primati arboricoli o semi-arboricoli che dagli alberi non sono mai scesi del tutto. Né c’è un gene di quella stazione eretta che Jay Gould mostra di non avere neppure in nota quando afferma che dal Cambriano, 500 milioni di anni fa, non ci sono state che modeste variazioni su temi anatomici ben stabiliti. Ma niente di più probabile che la stazione pienamente, perfettamente eretta sia solo di sapiens. L’avessero avuta anche altre specie di Homo avrebbero sviluppato un apparato fonatorio capace del linguaggio di parole, come per opinione (scientifica) pressoché comune non hanno fatto. Sarebbero arrivati a quel trattamento delle informazioni che è così superiore in sapiens in quanto solo sapiens ha davanti a sé in tutta la sua giornata di veglia l’intero cono degli eventi e il cielo, ovvero tutta l’informazione che gli necessita per intuire e prevedere anche ciò a cui non arriva con la vista e pure quella che finirà per ispirare una visione trascendente e si dica pure religiosa dell’esistenza. E’ la stazione pienamente eretta ad avere giocato un ruolo decisivo nell’evoluzione, anche spirituale, di sapiens. Piuttosto che un aminoacido. Senza dire che l’aminoacido mutato potrebbe essere arrivato dopo e non prima della decisiva evoluzione della struttura anatomica di sapiens.

Ma dove sta scritto che il Dna è sempre, sistematicamente, un prima e mai un dopo? E così siamo alla conclusione e vorremmo evitare che fosse quella che un certo conformismo scientifico cerca in tutti i modi e in tutte le sedi di imporre. Insomma: non soltanto sapiens è quel mascalzone della natura che ha fatto quello che ha fatto e che minaccia di fare, ma è pure un mascalzone che con la sua evoluzione, segnata dalla miseria di un aminoacido, non c’entrerebbe, mi si perdoni il francesismo, neppure un cazzo.

Di più su questi argomenti: